Silicon Valley: il paradiso delle startup?

Qui si fa sul serio. Un racconto in prima persona del demo day di Skydeck, l’incubatore dell’università di Berkeley che gestisce un programma di accelerazione per nuovi business. Sfide e opportunità anche per l’Italia

Sono un angel investor e ho la fortuna di incontrare tante startup italiane. Per tutte Milano è il posto dove essere, Londra è un’ambizione, la Silicon Valley è il sogno che molte non osano nemmeno fare. Era così il momento per me di tornare in California a incontrare le startup della Silicon Valley e questo è il racconto di cosa ho imparato.

Arrivo a San Francisco. La città è una delle più ricche al mondo, vista la concentrazione di milionari e miliardari. Così colpisce vedere quanti barboni ci siano: sotto i cavalcavia trovi tende, lungo i marciapiedi gente malata di mente che parla e grida da sola. A un’ora di macchina di distanza, Palo Alto presenta un’immagine patinata, di un mondo apparentemente perfetto, con le strade in ordine, villette con il giardinetto e uffici nuovi. L’università di Standford poi ha una sede a dir poco faraonica, ci si arriva percorrendo un lunghissimo viale di palme che ti porta a una specie di disneyland degli studenti.

Siamo nel cuore della Silicon Valley, un ecosistema che in pochi chilometri raccoglie tutti gli elementi necessari allo sviluppo di innovazioni e delle aziende costruite intorno ad esse: talenti e competenze formati da università d’eccellenza, Berkeley e Standford; centri di ricerca, universitari e privati, come a Melno Park; risorse finanziarie fornite dai vari fondi di venture capital, da Sequoia in poi; incubatori e acceleratori di imprese per aiutare la crescita delle startup, come Ycombinator, che da solo ha investito in oltre 1.500 startup che oggi valgono 80 miliardi di dollari; aziende che danno lavoro e formano migliaia di persone; storie di tante persone (tante davvero, alcune migliaia) diventate ricche fondando o lavorando in una startup. È un circolo virtuoso che attira gente di talento e gli dà la possibilità di creare aziende e farle crescere. Quando sei qui capisci perché aziende del calibro di Facebook, Google, Apple facciano fatica a trattenere i talenti, e che i migliori se ne vadano per costruire la loro startup.

Il vero motivo per cui sono venuta qui è partecipare al demo day di Berkeley Skydeck. Skydeck è l’incubatore dell’università di Berkeley, gestisce un programma di accelerazione per startup: ogni 6 mesi seleziona le aziende più promettenti, ci investe una cifra di 100.000 dollari ciascuna, gli offre un ufficio, un pacchetto di servizi e licenze SW, una serie di seminari e consulenze, gli organizza incontri con il suo network di advisor, solitamente alumni dell’università; alla fine dei 6 mesi organizza il demo day, cioè la presentazione delle startup ai potenziali investitori.

Insomma, fa quello che fanno anche gli incubatori italiani. La differenza sta nelle dimensioni. Tanto per cominciare Skydeck offre alle startup il supporto di un gruppo di ben 250 advisor; questi sono spesso manager con esperienze importanti in azienda, che offrono alle startup aiuto nelle aree che ciascuna startup sente più deboli, per esempio come organizzare gli aspetti finanziari e gestire i venture capital, oppure come avere il contatto e preparare l’offerta per una grande corporate.

Skydeck finora, in aggiunta agli investimenti diretti del suo fondo, negli ultimi 8 anni, ha racconto investimenti per le sue startup per 1,2 miliardi di dollari. Al demo day hanno confermato la loro presenza 900 investitori, tra venture capital e angel investor. La sala è piena, con sul fondo una cinquantina di persone in piedi: in totale, mi dicono circa 650 presenze. È un po’ come se in un singolo spazio si concentrassero tutti gli investitori italiani insieme. A occhio, almeno un terzo delle persone sono asiatiche, sento parlare un misto di americano e cinese, ma anche coreano.

Ci chiedono di sederci in sala quando arriva la banda dell’università, una ventina di elementi, che attraversa la sala con ottoni a tutto spiano e sale sul palco: sono proprio americani!

Skydeck accetta nel suo programma solo il 2,8% delle candidature, oggi presentano le 23 startup entrare a settembre 2019. Di queste, solo 3 sono state fondate da americani, le altre hanno founder stranieri, che a volte parlano un inglese con un fortissimo accento: cinesi, coreani, ucraini, turchi, francesi, indiani. C’è anche una startup Italiana, Stip, che ha sviluppato un sistema di intelligenza artificiale per migliorare la gestione delle interazioni coi clienti via social media. L’età media di chi sale sul palco è sulla trentina d’anni, ma c’è anche qualcuno sulla cinquantina. Pochissime donne: anche qui c’è un tema di STEM al femminile.

La prima cosa che colpisce, anche parlando con i venture capital presenti in sala, è che qui tutti sembrano cercare one-billion-dollar companies, aziende che un giorno varranno un miliardo di dollari, i fantomatici unicorni, mentre in Italia ci si accontenta di molto meno e alle startup si chiede solo a chi pensano di vendere l’azienda quando varrà qualche milione. Coerentemente le aziende appena nate che da noi al primo round di finanziamento raccolgono 200-300.000 euro qui possono ottenere già 2-3 milioni. Il mercato dei venture capital qui è super competitivo, ma il jackpot è più alto. Va da se che, se ti porti a casa queste cifre, ti puoi permettere da subito di prendere nel team manager esperti e di fare campagne commerciali importanti.

La seconda cosa è che non interessa che i founder della startup siano americani o meno, ma se vuoi raccogliere fondi qui, devi riuscire a conquistarti qualche cliente in USA e certo non basta avere chiuso contratti nel paese d’origine; in fondo vista da qui l’Europa è lontana, e non sembra considerata un mercato molto rilevante.

Quando esco, fuori dall’università, nella piazza, vedo dei robottini per la consegna di pranzi a domicilio: sono alti circa 50 cm, hanno un video con degli occhi che lampeggiano, aspettano di essere chiamati per una consegna. Mi spiegano che anche loro sono una startup di Berkeley Skydeck.

Per capire meglio come sono i rapporti tra la qui e l’Italia, decido di andare a visitare Mind the Bridge, un’azienda nata per fare da ponte tra aziende italiane (e non solo) e la Silicon Valley. Il loro lavoro è fare scounting di innovazione e startup per conto di grandi corporation interessate a fare innovazione in ottica di open innovation; ogni anno ospitano decine di manager venuti qui per toccare con mano le innovazioni più disruptive, quelle che cambiano i modelli di business, quelle che potrebbero mettere fuori mercato le loro aziende… o farle crescere molto di più.

In sintesi, in Italia la maggioranza della gente vede le startup come carine, curiose, dei giochini interessanti da ragazzini, ma non come vero business. In Silicon Valley le startup sono aziende con centinaia di dipendenti, che si chiamano startup solo perché sono nate da pochi anni e stanno crescendo del 300x l’anno. Nel palazzo accanto a Mind the Bridge ha la sede Stripe, una startup nata 10 anni fa offrendo sistemi di pagamento online, oggi valutata 35 miliardi di dollari.

Le startup che incontro in Italia hanno idee e progetti di livello simile a quelli che girano in USA, in compenso hanno meno risorse finanziarie e, di conseguenza, sono meno ambiziose; così nascono, ma non riescono a crescere velocemente quanto potrebbero. Io ci vedo una grandissima opportunità, sia per gli investitori, sia per le aziende, perché una cosa è chiara in Silicon Valley: startup vuol dire big business.

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