L’imposizione come espressione di povertà di competenze. La negoziazione è spesso vittima di un abuso lessicale. La parola viene genericamente confusa con il condurre una trattativa e più nello specifico con tre modalità: cedere, compromettere e imporsi. Vorrei qui occuparmi dell’imposizione.
Imporsi è una modalità relazionale che non richiede grandi skill, è alla portata di tutti e ha la finalità di far prevalere i nostri interessi, a detrimento e scapito di quelli degli altri.
È un approccio che non tiene conto del valore di una relazione evidentemente, anzi, a fronte del beneficio della nostra soddisfazione, espone al costo della compromissione dei rapporti e della propria reputazione.
Chi si propone attraverso l’imposizione abitualmente – tanto a livello individuale, quanto come organizzazione – verrà nel tempo percepito come tale dall’esterno, con le prevedibili conseguenze anche in termini reputazionali.
La modalità impositiva è figlia di un atteggiamento egoriferito e muscolare. Mi limito a prendere atto che l’imposizione è molto diffusa nelle relazioni umane, spesso malcelata dietro atteggiamenti di segno opposto, quali buonismo e demagogia, ma di fatto praticata a vari livelli e in diversi contesti.
Imporsi non richiede grandi capacità. È una modalità comportamentale istintiva, irrazionale, non credo rientri in nessun processo di selezione professionale la “comprovata capacità di sapersi imporre”, né esistono corsi o training manageriali sull’esercizio della minaccia.
Peraltro minacciare, perché agiamo sotto un determinato “brand” o rappresentiamo un ipotetico o reale mandato di terzi, è molto povero come approccio, delegittima chi lo pone in essere, che, nel prestarsi, diventa estremamente fungibile da parte dello stesso mandante e facilmente sostituibile, specie se ha esercitato o fondato l’esercizio della propria professionalità in modo significativo su questo modus operandi.
Difficile affrontare il tema dal punto di vista etico, ma è pur vero che la minaccia e l’imposizione nei normali contesti di lavoro e all’interno della dinamiche ad essi sottesi, non hanno di per sé nulla di nobile.
La ricerca di Cialdini: etica e opportunità economica
I primi frutti di una ricerca condotta da Robert Cialdini, professore emerito di Psicologia e Marketing della Arizona State University, sulle conseguenze dell’agire etico e antietico hanno dimostrato che “il ricorrere a un comportamento non etico non è frenato dalla paura di essere scoperti, perché specie le figure apicali delle organizzazioni si sentono inattaccabili.
Se si affronta il tema dal punto di vista dell’opportunità economica a fondamento dell’agire verso fornitori, clienti e stakeholder, i razionali cambiano.
L’ipotesi avanzata da Cialdini è che “in un’azienda o una organizzazione che coltiva o ammette approcci “non fair, non corretti”, tra i quali ci permettiamo di inserire la minaccia, i dipendenti che non condividono questo approccio vivranno un disallineamento valoriale tale che o saranno soggetti a stress o saranno costretti ad andarsene.
A quel punto nell’azienda rimarranno o persone improduttive, perché sottoposte a stress, o persone disoneste, che peraltro ci si può aspettare agiranno nello stesso modo verso l’azienda stessa“.
Credo che nulla meriti di essere aggiunto.