Il rinascimento del management

Evoluzione del management e ruolo dei manager: dialogo con Francesco Varanini, consulente, formatore, scrittore, autore del libro Marchionne non è il migliore dei manager possibili

Nel suo ultimo libro, che sta avendo un grande successo, lei parte da una critica a Marchionne, troppo schiavo dell’azionista di riferimento, per delineare un ruolo del management più orientato agli interessi di tutti gli stakeholder e, potremmo dire, sostenibile.

«Per me Marchionne è solo un caso esemplare. Parlo di lui nelle prime quaranta pagine, con un richiamo poi nella conclusione. Pagine che i lettori potrebbero perfino saltare. Non nego le qualità di Marchionne, il suo carisma, ma mi soffermo su un dato di fatto: Marchionne sceglie di essere l’esecutore degli interessi di una famiglia di redditieri e fondi di investimento. Ogni altra cosa, ogni altro interesse, la stessa produzione di automobili, passano in secondo piano».

Cosa rimprovera a Marchionne?

«Essenzialmente, gli rimprovero di essere stato il campione di un certo modo di essere manager. Lo riassumo, in modo forse un po’ brutale, nel concetto di “estrazione di valore”. C’è un’abissale differenza tra “produzione di valore” ed “estrazione di valore”. La produzione di valore è la trasformazione di materie prime in prodotti finiti, è la predisposizione di servizi che rispondono a bisogni. La produzione di valore è alimentata dalla giusta remunerazione di tutti gli stakeholder e dagli investimenti. Il manager alla Marchionne considera invece suo compito estrarre valore dall’impresa, ogni anno. Portandolo nelle mani di redditieri e speculatori disinteressati all’impresa. Così non solo si penalizzano i lavoratori, i clienti, i fornitori, il territorio, ma anche si mina la sostenibilità dell’impresa. E un’impresa privata di investimenti, dove mancano un buon clima di lavoro e una comunanza di intenti, non ha futuro: è destinata a scomparire».

Andiamo oltre Marchionne e passiamo alle sfide che il management ha oggi, in un contesto così dannatamente complicato. Quali sono le principali?

«Andare oltre Marchionne vuol dire smetterla di pensare che ci sia un eroe che ci toglie le castagne dal fuoco. Coltivando il culto dell’eroe Marchionne, ce ne laviamo le mani. Celebrando la sua straordinaria bravura, ci togliamo di dosso l’onere di essere bravi noi stessi. Ogni manager sa che i problemi che ha di fronte sono estremamente complessi. La sfida è fare comunque il possibile per affrontarli, senza ritrarsi. Accettare la sfida vuol dire provarci. Consapevoli dei propri limiti, ma anche fiduciosi, perché sappiamo che riflettendo sulla propria esperienza, giorno dopo giorno, si migliora».

Come deve essere e cosa deve fare quindi un manager, da quello della pmi a quello della multinazionale che opera a livello globale?

«Certamente ci sono differenze tra l’essere manager in una multinazionale o in una pmi. Ma ci sono aspetti di fondo comune. Basta citarne due. Il primo è non limitarsi a estrarre valore, preoccupandosi invece di crearlo. Il secondo consiste nel non schiacciarsi su modelli – sul modello Marchionne, o qualsiasi altro – e trovare e praticare invece il proprio modo di essere manager. Insomma, il manager può e deve coltivare la fiducia in sé stesso».

L’anima etica e i dilemmi etici come possono trovare soddisfazione in un contesto come quello attuale, che potremmo definire di “concorrenza sleale”?

«Non dobbiamo farci illusioni, ma possiamo evitare di farci condizionare troppo dai contesti sfavorevoli. Nel mio libro mostro un percorso che ogni manager può seguire: il punto di partenza è non tapparsi gli occhi di fronte alla realtà. Un manager che non si tappa gli occhi vivrà inevitabilmente un’ansiosa preoccupazione. Ma possiamo trasformare l’ansiosa preoccupazione in presenza responsabile. Non saremo in grado da soli di trasformare un’azienda, ma potremo sempre riconoscerci la soddisfazione di aver fatto la nostra parte, di aver fatto ciò che sentiamo nostro dovere».

Per non pensare a un manager un po’ Don Chisciotte, chi può e deve sostenere questo management, guidato dalla sostenibilità e dal tenere in considerazione interessi diffusi?

«Be’, non vorrei sottovalutassimo Don Chisciotte: è il prototipo dell’uomo buono e nobile che mantiene vivi i propri valori e non cede mai al cinismo. In un certo senso, non dobbiamo vergognarci di essere come l’antieroe di Cervantes. Ma la domanda è giusta: Don Chisciotte era, suo malgrado, un perdente. E invece ogni manager ha il diritto e il dovere di cercare la propria affermazione. Come affermarsi senza rinunciare ai valori, senza livellarsi in basso? Credo che ai manager serva, per non sentirsi soli e per bilanciare il peso delle situazioni aziendali difficili, una comunità, un luogo dove i valori personali siano confermati e alimentati, fino a diventare un’identità collettiva. Penso possa essere questo il senso di un’associazione come Manageritalia».

Per essere un manager di questa forgia, servono caratteristiche quasi straordinarie come forte competenza tecnica e inossidabile spirito etico?

«Ovviamente, servono le competenze, ma non credo proprio occorrano caratteristiche straordinarie. Bisogna ricordare quello che ci hanno insegnato i genitori, serve non dimenticare i sogni che avevamo da ragazzi, ricordare la lezione di qualche maestro. Credo che il rinascimento del management nasca, come cerco di dire nel mio libro, dal riconoscere che il manager non è un puro tecnico, non è un “esperto” che guarda il mondo da fuori, che governa dall’alto. È un cittadino tra i cittadini. Un lavoratore tra gli altri lavoratori, con più potere e, quindi, maggiori responsabilità. Non credo esista un’etica del manager. Esiste l’etica del cittadino che svolge il lavoro di manager. Esiste in molti di noi la consapevolezza di svolgere un ruolo sociale di fondamentale importanza. Ripartiamo da questa consapevolezza».


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