Corte Costituzionale: no al prelievo

Il contributo di solidarietà sulle pensioni oltre i 90mila euro lordi all’anno è illegittimo, e i soldi trattenuti dagli istituti previdenziali a partire dall’estate del 2011 a oggi devono essere restituiti ai diretti interessati. Lo impone la sentenza 116/2013 depositata ieri dalla Corte costituzionale (qui).
 Ne parla – tra l’altro – questo articolo spiegando che la Consulta “ha assestato un’altra bordata all’architettura incerta dei tagli a stipendi e pensioni più elevate costruita tra 2010 e 2011”. 
 
La sentenza sottolinea che il prelievo è un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini visto che le imposizioni fiscali devono essere commisurate alla capacità contributiva delle persone (articolo 53 della Costituzione) e che non si può distinguere tra tipologie di reddito per penalizzare alcuni o premiare altri. 
 
Certo: questa sentenza ci dà un argomento in più per continuare la battaglia contro il blocco della perequazione. Ma attenzione a giudicarla con superficialità. Il prelievo ha generato discriminazioni tra pensionati e lavoratori, tra dipendenti, autonomi e imprenditori, tra chi ha una pensione e chi una rendita. Adesso la Corte Costituzionale ripropone il tema dell’uguaglianza del sistema tributario, senza fare populismo e condannare chi ha pensioni elevate a prescindere, come sembra vada di moda ultimamente. 
 
In proposito faccio una esortazione che mi sta particolarmente a cuore: non vengano giudicate le pensioni senza prima valutare il rendimento implicito dei versamenti che le hanno generate. Qualora lo facessimo, capiremmo che non sempre pensioni elevate corrispondono a chissà quali regali… magari scopriremmo che queste possono avere anche bassi rendimenti. 
 
Paragoniamo poi queste con i rendimenti altissimi di alcune basse pensioni. Scopriremmo semplicemente che già esiste una “giusta solidarietà” e potremmo arginare le demonizzazioni e le persecuzioni mediatiche. Condannare il giusto reddito (anche elevato) equivale a mettere in discussione la meritocrazia. Significa non riconoscere sacrifici, responsabilità, valore. Significa condannare il paese alla mediocrità. 
 
Bisogna dunque andare oltre gli stereotipi: è giusto che chi ha di più deve dare di più alla collettività, ma senza scorciatoie. Non si possono reiterare interventi che penalizzano le pensioni e intraprendere crociate indiscriminate sui redditi alti, in nome di un facile qualunquismo. 
 
Questo non significa, comunque, accettare gli eccessi ingiustificati o disconoscere la progressività dell’imposizione fiscale sul crescere della ricchezza, ma riconoscere che bisogna equamente distribuire i sacrifici, senza concentrarli sul lavoro e i suoi frutti. 
 
E allora – scusate se sono insistente – cominciamo seriamente a colpire l’evasione, l’elusione, gli sprechi, il demerito e gli enormi proventi delle attività illecite. Non è forse la strada più facile, ma l’unica in nome dell’equità.

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Per approfondire il discorso sulle retribuzioni segnaliamo l’articolo “I dirigenti guadagnano troppo?” di Rodolfo Buat, qui




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