Smartworking: la pandemia è a casa mia!

Spunti semiseri su organizzazione degli spazi, nuove abitudini e guai legati al lavoro da remoto, in attesa di tornare alla nuova normalità...

Dagli inizi di marzo comodamente seduti davanti al pc. Per alcuni, è andato in onda il filmato “Smartworking: la pandemia direttamente a casa mia!”.

Non è mia intenzione soffermarmi sui risvolti umani e drammatici di questa pandemia, a cui tutti noi ci rivolgiamo con enorme rispetto e silenzio, ma piuttosto desidero porre l’attenzione sui risvolti business di questa assurda situazione.

Da un giorno con l’altro ci siamo trovati ad affrontare una situazione che è sembrata, agli occhi di tutti, un vero film di fantascienza, tipo “Pandorum – L’universo parallelo”, anziché la realtà. Così, per evitare il “mostro”, le aziende si sono immediatamente attivate per convertire la “produzione” onSite in produzione onLine! In un attimo le reti si sono ingolfate di traffico come nei peggiori weekend estivi da bollino rosso sull’Adriatica.

Ecco che è cominciato così il lavoro da casa: il famigerato smartworking. Ormai anche le casalinghe più datate lo nominano, infatti mi è capitato di ascoltare dal panificio: “Mio nipote lavora in smarworchi!”. Anche loro hanno compreso che si tratta di qualcosa di diffuso come andare in bicicletta, solo che nello smartworking ti muovi poco e “pedali” tanto comunque!

Ma vediamo cosa sta succedendo nelle case degli smartworker. Per prima cosa dobbiamo distinguere le fasi di questa pandemia, che non coincidono con i decreti governativi, ormai noti a tutti i cittadini. La prima fase, dal 7 marzo al 30 marzo, è stata caratterizzata da una corsa allo smartworker più indaffarato di sempre. In tutte le aziende (ovviamente quelle che hanno potuto permettere lo svolgimento del lavoro in remoto) si è registrata un’impennata di meeting virtuali che non si era mai vista prima! I poveri smartworker si sono trovati a gestire 12/15 videochiamate in un giorno.

Non c’erano più pause caffè, colazioni di lavoro, le due chiacchiere nei corridoi, niente più di tutto questo! Così i “capi” hanno cominciato a pensare “Però, mica male questo smarworchi”, finalmente potevano tracciare l’operatività dei lavoratori attraverso il bollino verde “online” o quello “rosso” occupato, con qualche videochiamata a sorpresa. Così molte aziende hanno cominciato a pensare “Eureka, ma allora funziona”… E la web pandemic ha avuto inizio!

Presi dallo slancio iniziale, diciamo la verità, un po’ tutti ci siamo fatti prendere la mano dal clic frenetico delle videocall!

Così tutto ebbe inizio. Piattaforme di collaboration in quel momento sconosciute sono diventate i nuovi “Locali in” da frequentare: “Dove ci troviamo stasera?”. Su Zoom, meet, teams, whereby, join.me (giusto per citarne alcune)? E quasi tutti siamo diventati degli espertoni di videocall, per non parlare delle numerose attività che si sono riversate sul web, dalle lezioni di zumba a come cucinare il polpettone, imparare a fare la pizza e altro ancora. Improvvisamente, tutto sembrava fosse diventato “videocollabile”! Ma questa è un’altra storia.

Dopo la fine di marzo è cominciata la seconda fase, quella del “naaaaaa! un’altra call!”. Ecco che le call si sono assestate su un numero più gestibile di meeting, non più tutti coinvolti per condividere qualunque spicciola questione, ma solo videocall mirate e dalla durata breve. Questa seconda fase si è caratterizzata da un po’ di tregua: la Pasqua era imminente, le notizie in tv erano davvero drammatiche e forse tutti ci siamo resi conto che da questa situazione non ne saremmo venuti fuori velocemente. Così anche i mouse hanno cominciato a riprendere fiato, hanno smesso di rincorrere i piccoli e grandi bocconcini di formaggio sparsi qua e là. La gara dello “smartworker come se non ci fosse un domani” ha cominciato a rallentare.

Come hanno vissuto gli smartworker questa nuova modalità di lavoro?

Anche qui vale la pena distinguere due fasi. Nella prima, nonostante le videocall fossero diventate un vero e proprio tormentone, si è trattato comunque di una novità, e forse non c’era ancora una vera e piena consapevolezza di cosa stesse accadendo. In questa fase la paura di un contagio e il desiderio di lavorare finalmente da casa hanno portato ad una piena disponibilità allo smartworking, sorretta anche da un pizzico di curiosità tipica dell’essere umano verso le situazioni nuove. Ecco perché le videocall erano numerose e si susseguivano una dopo l’altra. Gli smartworker genitori all’inizio erano ben lieti finalmente di poter vedere i piccoli pargoli aggirarsi per casa come ninja pronti all’assalto.

Ed era piuttosto frequente durante una call vedere spuntare qualche piccola testolina sullo schermo e sentire prontamente il genitore, sorridente e baldanzoso “Dài tesoro, gioca con il dinosauro, che poi la mamma…”. Tutto ad un tratto lavorare da casa aveva assunto le sembianze di un Grande Fratello, abbiamo visto gli arredamenti dei colleghi, forse abbiamo anche preso spunto per fare qualche miglioria nelle nostre case, abbiamo conosciuto i vari Fido e Minu, i figli, i nipoti e tutta la stirpe. Siamo entrati in quel luogo così intimo che è rappresentato dalle nostre case. Colleghi che fino a ieri sembravano molto rigidi forse ci sono sembrati più flessibili nell’osservare lo sfondo delle loro case.

Lo smartworking è una modalità lavorativa che sfuma i confini tra professionalità e personalità. Potremmo quindi affermare che ciò che siamo nella professione lo siamo anche nella nostra vita più intima. Non esiste un netto confine. Nel lavoro riversiamo le nostre modalità di pensiero, le nostre ansie, le nostre preoccupazioni. La celebre espressione “Quando lavori devi lasciarti alle spalle i tuoi problemi personali” non trova di fatto una reale applicazione. Nello smartworking le nostre modalità personali sono state rese visibili partendo dall’assunto che ogni cosa parla di noi, nell’entrare nelle case dei nostri clienti, fornitori, colleghi, credo che noi tutti abbiamo acquisito una maggiore conoscenza su chi è davvero quella persona. In psicologia la personalità infatti è rappresentata dalla metafora della casa!

Ma torniamo alla seconda fase di come ha vissuto lo smartworker. Dopo l’entusiasmo iniziale sono cominciati i primi guai. Ma non per tutti. Nella mia esperienza clinica, una buona parte di lavoratori “remoti” hanno continuato ad apprezzare i risvolti positivi di questa situazione, dichiarando “Una pandemia ogni tanto non sarebbe male!” (ovviamente si fa per dire e non c’è nessuna allusione ai risvolti drammatici di questa situazione, sia chiaro!).

Ma un 30% di smartworker hanno iniziato a soffrire e hanno cominciato a vedere la propria casa come una vera prigione! Per lo più si è trattato di persone che hanno dovuto forzatamente condividere le stanze della propria personalità, anche quelle più buie, con altre persone. La mancanza di contatti reali con estranei, la mancanza d’indipendenza, quella piccola routine come il caffè al bar, la chiacchiera con il collega, conoscente eccetera hanno cominciato a mancare come l’aria! Per altri il piccolo o i piccoli ninja sono diventati rumorosi, invadenti, non più “Tesoro, gioca con il dinosauro”, ma “Perché non c’è un dinosauro vero in casa!” (si fa per ridere ovviamente). Ecco che allora la pandemia non era più fuori, ma dentro casa!

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