Perché abbiamo bisogno di manager

Un ruolo insostituibile nel guidare le persone attraverso i cambiamenti e le sfide nel mondo del lavoro. Ne parliamo con Nicolai J. Foss, economista, esperto di management, professor of Strategy presso la Copenhagen Business School e autore di numerosi saggi sul tema: l’ultimo è Why managers matter, scritto con Peter Klein

Diverse figure professionali si definiscono “manager”: oggi quali sono dal suo punto di vista gli elementi distintivi, anche in termini di skill, di un ruolo manageriale, a prescindere dal suo contratto?
«Circa 50 anni fa Henry Mintzberg sosteneva che il ruolo manageriale fosse “multidimensionale”. L’economista canadese si schierava contro i teorici del management che l’avevano preceduto, come Henri Fayol, il quale aveva definito i manager come persone in qualche modo distaccate, che pianificano, organizzano, coordinano e controllano. Mintzberg dichiarava: “Sì, è ciò che fanno, ma in realtà sono sempre coinvolti nelle loro mansioni, lavorano a un ritmo incessante, sono fortemente orientati all’azione e, allo stesso tempo, hanno doveri regolari, quasi cerimoniali, svolgendo molte attività diverse caratterizzate da varietà, discontinuità e brevità”. Mintzberg ha identificato dieci funzioni del manager, come quella di rappresentanza, di gestione di disordini, di leader, di unione nell’ambiente di lavoro e così via. Penso che tutto ciò sia ancora vero».

Cosa è cambiato dopo la crisi sanitaria, in un mondo del lavoro sempre più imprevedibile e sfidante, in cui le persone pretendono che si dia loro sempre più senso e realizzazione in ciò che fanno?
«È cambiata l’importanza di alcuni ruoli ricoperti dai manager nelle organizzazioni. Ad esempio, per rispondere all’evidente esigenza di un senso del lavoro che vada oltre lo stipendio, il manager deve essere sempre più leader e persona di “primo impatto”. Al contrario, altri ruoli, come quello legato al monitoraggio delle persone, oggi hanno perso importanza».

Perché i manager sono oggi più che mai determinanti per il successo di un’organizzazione?
«Perché le persone spesso hanno bisogno di lavorare insieme per portare a termine progetti e attività. Devono quindi capire esattamente cosa fare e chi coinvolgere, quando, dove e come. I manager devono motivare e coordinare le persone mentre svolgono le proprie attività, in particolare quando queste sono interconnesse. Se il lavoro (i clienti, la tecnologia ecc.) è statico, le persone possono capire come agire da sole, comunicando e prendendo decisioni insieme in modo autonomo. In una realtà dinamica è però necessario che qualcuno coordini e faccia collaborare in modo rapido. Quel “qualcuno” è proprio il manager. Al manager vengono dati l’autorità, il potere di fare scelte e stabilire regole e linee guida da seguire, perché queste hanno un senso “economico”».

Nel suo libro sottolinea come l’idea della “bossless company” sia in realtà un abbaglio e che le organizzazioni che si autoproclamano senza manager non la contano giusta: perché qualcuno crede ancora a questo mito, nonostante le evidenze?
«La narrativa delle aziende senza manager si basa su alcune convinzioni molto influenti nella nostra società. Penso ai valori fondanti della cultura liberale, che punta sull’affermazione di se stessi, sull’autonomia, ma anche sull’engagement, il dialogo e la democrazia. Inoltre, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, si è imposta una forte vena antiautoritaria. La narrativa della bossless company afferma sostanzialmente che non abbiamo bisogno di questo “dispositivo autoritario” chiamato “gerarchia” o, addirittura, “manager”. Possiamo gestire l’organizzazione solo lateralmente, attraverso la comunicazione e la fiducia, coinvolgendo tutti. Naturalmente, questa idea è ingenua e, per la maggior parte delle aziende, non funziona. Allo stesso tempo, i lavoratori di oggi attribuiscono un valore più elevato all’autonomia, alla flessibilità, alla capacità di apprendere sul lavoro e contribuire a uno scopo più elevato. Tutti i manager devono riconoscerlo, ma penso anche che le aziende considerate tradizionali siano in grado di soddisfare queste esigenze».

Lei punta anche i riflettori sulla funzione del middle management: perché e come, oggi, è determinante? Quali sono i principali cambiamenti che lo hanno coinvolto?
«I quadri aziendali hanno spesso una cattiva e ingiusta reputazione: vengono non di rado considerati burocrati, esecutori che uccidono la creatività nell’organizzazione. Il recente annuncio di Zuckerberg che falcidierà i middle manager in Meta, perché giudicati sostanzialmente superflui, è un messaggio che disorienta. È impossibile che non sia consapevole del ruolo dei quadri: aiutare le persone a capire cosa fare e come farlo, favorendo la loro collaborazione, in particolare quando le cose cambiano».

Lunga vita ai quadri, dunque?
«In effetti, ci sono ricerche che dimostrano che il supervisore diretto è molto più importante dei vertici aziendali per il coinvolgimento del team. I top manager sono necessari per definire la direzione di un’organizzazione, prendere le decisioni di investimento più importanti, insieme a cultura, identità e regole base del gioco, elementi che favoriscono il coordinamento e la collaborazione delle persone. Ma nel lavoro quotidiano sono i middle manager che contano per le persone in azienda. Come tutti i manager, i quadri devono però capire che i tempi dell’ingerenza nel lavoro altrui e del micromanagement sono finiti».

Cosa è cambiato con la diffusione dello smart working e la gestione dei team da remoto e ibridi?
«Il passaggio al lavoro da remoto e ibrido su larga scala, spinto dalla pandemia, è stato un “esperimento naturale” che ha dimostrato proprio il valore dei manager. Le restrizioni nei movimenti hanno fatto sì che le imprese multinazionali non potessero inviare i loro manager all’estero e, dunque, le filiali locali si sono assunte maggiori responsabilità. I lockdown hanno costretto i lavoratori a restare a casa, con una supervisione meno formale, ma sempre presente.

Alcuni hanno commentato che questo esperimento ha dimostrato che ci sono troppi manager…
«Niente di più falso! Chi è intervenuto per riprogettare compiti e mansioni in modo che fossero più adatti al lavoro a distanza? I manager, naturalmente. Il lavoro da remoto e ibrido è rimasto, così come le sfide manageriali nella gestione di persone geograficamente distanti. I manager devono considerare e valutare quali attività siano adatte per il lavoro a distanza e quali no; come gestire un team con persone fisicamente distanti; come premiare qualcuno i cui input diretti nel lavoro possono essere difficili da osservare direttamente; come aiutare le persone ad affrontare l’equilibrio tra sfera professionale e privata e così via. Direi dunque che questo esperimento ha rafforzato la necessità del ruolo manageriale, portando nuove opportunità e, allo stesso tempo, sfide».

Manageritalia è un sindacato e un’associazione di executive e middle management. I manager, seppure spesso definiti “individualisti”, hanno bisogno di qualcuno che li rappresenti e affianchi nelle sfide professionali?
«Senz’altro. Anche gli “individualisti” sono creature sociali. Inoltre, il lavoro manageriale è sostanzialmente lo stesso ovunque: coordinare e far collaborare le persone. Ma il modo in cui i manager lo fanno è molto diverso. Dipende dal settore, dall’azienda specifica, dalle persone che gestisci, da te stesso… Quindi, ci sono parecchie contingenze. Alcune lezioni generali sono generalmente applicabili, dopotutto è per questo che abbiamo le business school. Ma molto deve essere imparato sul campo, attraverso lo scambio di conoscenze ed esperienze con altri colleghi. In effetti, quando ho iniziato a tenere corsi di executive Mba mi sono subito reso conto che uno dei motivi principali per cui i dirigenti erano lì non era perché volevano ascoltarmi, ma perché volevano ascoltare altri dirigenti. Allo stesso modo, associazioni come Manageritalia svolgono un ruolo importante nel supportare i manager nella loro crescita professionale, anche aiutandoli a condividere conoscenze ed esperienze».


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