Più di un secolo fa Nietzsche osservava tra il compiaciuto e l’arrabbiato che forse era rimasta solo la grammatica ad ancorare l’uomo alla certezza di essere il punto di riferimento di tutto. Sbarazziamoci della grammatica – questo il suo pensiero – e avremo spazzato via l’ingiustificabile ‘vanità’ del soggetto. Io guardo il cielo: soggetto (appunto), predicato, complemento. L’alternativa, ammesso che ce ne sia una, quale potrebbe essere? Proviamo a cambiare di posto i termini: ‘guardo io il cielo’, ‘il cielo io guardo’, ‘guardo il cielo io’. La sorpresa, se mai ce ne fosse, è che le cose, da un certo punto di vista, non cambiano. Il significato per noi resta so-stanzialmente invariato: non è il cielo a guardare noi, né il guardare cielo me o qualcun’altro.
La grammatica sembra quindi qualcosa di insormontabile e questo probabilmente perché non è altro che l’espressione di una struttura profonda della realtà e (quindi) dell’esperienza del mondo. Possiamo provare a sciogliere questo soggetto, questo ‘io’ o ‘sé’ quanto vogliamo, ecco che riemerge, come la classica paperella di gomma nella vasca da bagno. Eppure sembrerebbe che questa dissoluzione sia avvenuta da tempo: dalla catena di montaggio taylorista alle masse in azione (e in ribellione) di cui parlava Ortega Y Gasset, fino ad arrivare al nostro mondo nel quale una condivisione (sharing) ormai ramificata negli ambiti più disparati ha mosso – non solo filosofi ‘addetti ai lavori’ – a mettere da parte l’io e a riferirsi molto più volentieri a soggetti (o a oggetti) sociali, naturalmente fluidi.
Eppure l’elemento vitale e soprattutto generativo di ogni connessione resta irriducibile ai processi che ne potenziano il segnale e ne sparpagliano gli effetti. Si potrebbe affermare perentoriamente che quell’elemento resta l’’io’, sono io, è ciascuno di noi. Un ‘io’ che, peraltro, con tutta evidenza continua a vivere ben distante da alveari o schede madri. Questa constatazione però non basta. L’‘io’ che continua a sussistere e a generare, è l’io principio vitale di ogni connessione, collaborazione e comunità: è un io-in-relazione.
Una relazione non è una semplice connessione. Non si misura semplicemente con la quantità di dati scambiati. La sua unità di misura è qualcosa molto di più complesso e vitale. Si potrebbe azzardare che è la qualità (consistenza) e la stratificazione (profondità) dei significati a cui dà accesso, che genera o trasforma. D’altra parte che cosa chiedo alle parole che scambio, agli incontri che pianifico o che semplicemente mi capitano, ai progetti e alle imprese che mi mettono insieme ad altri? Che tutto questo dia voce, espressione, crescita (e quindi nutrimento) a quella misteriosa ma reale eccedenza che abita in me. Che sono io stesso. Quell’eccedenza che fa sì che io sia allo stesso tempo “tante cose” (pensieri, emozioni, parole, gusti, ruoli…) e tante azioni (conoscere, desiderare, lavorare…).
La potenza, versatilità e creatività di queste relazioni sono però proporzionali alla consapevolezza che io (il soggetto) ho di tutto questo. E da questa consapevolezza, agita e interagita, dipenderà anche lo spettro di effetti, di legami e di novità che potranno accadere nel mondo. Coltivare e agire questa consapevolezza e insieme ad essa tutto lo spettro ampio e potente delle relazioni che da essa partono, terminano (o semplicemente passano) non è solo una premessa strategica necessaria della collaborazione. È l’accadere della sola collaborazione possibile. D’altra parte la differenza che passa tra una richiesta di feedback fatta personalmente, a voce e motivata e due righe via email non è solo una differenza di medium comunicativo o di ‘stile’. Sono azioni che hanno due soggetti diversi. E tutti sappiamo che solo la prima potrà avere effetti che generano e moltiplicano, mentre la seconda sarà solo l’ennesimo scambio di byte.