Leader, abbracciate l’inclusione!

A tu per tu con Jennifer Brown, voce di riferimento sui temi della diversity e dell'inclusion e autrice del libro How to be an inclusive leader. In occasione della Giornata internazionale della donna, approfondiamo con lei le principali sfide in questo ambito e la strada da percorrere per colmare il gap nelle organizzazioni

Quale potrebbe essere la definizione di “leader inclusivo”?
«Essere un “leader inclusivo” può avere significati diversi, soprattutto considerando le sfumature delle esperienze personali e degli ambienti di lavoro specifici. In generale, ritengo che un leader inclusivo sia qualcuno spinto a suscitare cambiamenti positivi nel senso più ampio del termine. Il leader inclusivo nutre il purpose negli altri, in particolare in coloro che hanno lottato per essere visti, ascoltati e apprezzati, e affronta regolarmente le proprie lacune e i pregiudizi di conoscenza. È forse ancora più importante sottolineare che il leader inclusivo sa come utilizzare il proprio ruolo per sfidare lo status quo, sostenere l’equità e smantellare le strutture che perpetuano l’esclusione, anche se ciò significa sacrificare il capitale personale».

Lei è considerata una delle principali esperte negli Stati Uniti sui temi della diversity e dell’inclusion: che tipo di traguardi sono stati raggiunti in questo campo negli ultimi anni e cosa manca ancora nel mondo del lavoro?
«Negli ultimi anni c’è stata un’evoluzione rapida e incoraggiante in questo ambito. Sebbene ci siano stati molti passi in avanti di cui essere orgogliosi, mi ritengo particolarmente soddisfatta per l’espansione e lo sviluppo diffuso dei gruppi di affinità, meglio noti come Employee Resource Groups (ERG), ovvero gruppi guidati dai lavoratori incentrati su determinate identità, con l’obiettivo di promuovere l’inclusione in azienda. Esistono da anni, ma solo di recente abbiamo assistito alla nascita di nuovi forum basati su una varietà di dimensioni della diversità, oltre l’etnia e il genere. Abbiamo visto emergere nuovi gruppi intorno alla genitorialità e all’assistenza, alla salute mentale e persino all’allattamento.

L’American Civil Liberties Union è un fantastico esempio di organizzazione che investe sui propri ERG e li sostiene. Il loro crescente elenco di ERG include gruppi per femministe, dipendenti ebrei, donne afroamericane, dipendenti ex carcerati e immigrati. Inoltre, gli ERG hanno anche iniziato a collaborare e “impollinarsi” tra loro, condividendo spazi e creando dialoghi intersezionali davvero affascinanti. Penso che queste alleanze diventeranno ancora più prevalenti in futuro.

Una cosa che manca è una maggiore attenzione alla forza lavoro multigenerazionale, soprattutto per quanto riguarda l’alfabetizzazione tecnologica. Man mano che i talenti emergenti diventano sempre più visibili sul posto di lavoro, dovrebbe essere posta maggiore attenzione su come costruire e sostenere i ponti tra le divisioni generazionali. Il passaggio ispirato dalla pandemia al lavoro virtuale ha chiaramente evidenziato i nostri diversi livelli di comfort con la tecnologia, che occasionalmente hanno causato problemi di comunicazione, oppure ostacoli a un lavoro di squadra efficace. Credo che le questioni relative all’equità di internet e alla presenza aziendale online diventeranno particolarmente importanti nel prossimo futuro».


Secondo lei, eventi e movimenti di respiro internazionale come #MeToo e #BlackLivesMatter hanno sensibilizzato le aziende su questi temi?
«I movimenti per la giustizia sociale hanno indubbiamente accresciuto la consapevolezza dell’inclusione e dell’equità all’interno delle aziende. Ciò che sono riusciti a realizzare particolarmente bene, e che il lavoro sulla diversità aziendale a volte fatica a raggiungere, è mostrare quanto siano viscerali, personali e radicati questi problemi.

Molte persone credono che aspetti come la politica o la giustizia sociale debbano rimanere al di fuori dagli ambienti di lavoro, ritenendoli poco “professionali”. Ma movimenti come #MeToo e #BlackLivesMatter hanno dimostrato che la discriminazione sistemica e gli abusi di potere influenzano ogni aspetto della nostra vita, e questo ha effetti sulle performance sul lavoro. L’idea di ignorare gli scandali delle molestie sessuali o i casi di brutalità della polizia una volta entrati in ufficio è irrealistica e ingiusta nei confronti dei propri collaboratori, quindi sono grata che gli sforzi di movimenti del genere abbiano aperto le porte a conversazioni critiche. La sfida è ora sostenere queste conversazioni al di là dei trend popolari e catalizzarle verso azioni concrete».

Qual è il ruolo dei manager per incoraggiare e promuovere la diversità e l’inclusione?
«I manager, e in generale i leader con visibilità di ogni tipo, hanno un ruolo chiave in tal senso. I sostenitori della DEI (diversity, equity e inclusion) sanno da anni che i loro sforzi necessitano del supporto attivo di manager ed executive se vogliono un cambiamento duraturo e sostenibile. Mentre andiamo avanti, ora è il momento di raddoppiare quel messaggio di consenso da parte dei massimi leader e di approfondirlo.

Se i lavoratori percepiscono che i loro manager, alle prese con dimensioni profondamente personali privilegiate, di potere e identità lottano per affermare questi valori, allora si renderanno conto che è un processo importante che tutti dovrebbero intraprendere. In sostanza, i manager dispongono di una potente piattaforma per modellare comportamenti inclusivi e questo non dovrebbe essere preso alla leggera.

Dai responsabili delle risorse umane ai Chief Diversity Officer: è solo una questione di job title specifici o piuttosto di cultura aziendale?
«L’inclusione include tutti. Sembra un gioco di parole, ma questa è letteralmente la definizione del termine. Ciò significa che tutti, indipendentemente dal loro titolo professionale, hanno un ruolo da svolgere nella creazione di una cultura di appartenenza in cui ogni individuo si possa sentire accolto e ascoltato. Peter Drucker ha detto “Culture eats strategy for breakfast”, il che significa che l’ethos di un ambiente è più potente dei cambiamenti strutturali trasmessi dall’alto. Sono d’accordo con questo punto di vista. Tutti possiamo fare piccole cose per rendere i nostri luoghi di lavoro più sicuri l’uno per l’altro. Possiamo includere i nostri pronomi quando ci presentiamo, partecipare ai gruppi organizzati dai lavoratori, riportare le microaggressioni quando le ascoltiamo, informarci con contenuti sull’inclusione e altro ancora. L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ma il punto è che c’è sempre qualcosa da fare a livello individuale per favorire l’equità sul posto di lavoro».

Se potesse dare a tutti i manager, indipendentemente dai loro ruoli, tre suggerimenti per essere più inclusivi, cosa direbbe loro?
«C’è una lunga lista di azioni che i manager potrebbero svolgere per essere più inclusivi, ma mi morderò la lingua e mi limiterò a tre! In primo luogo, consiglierei ai manager di vedere tutto sotto la loro competenza attraverso una lente di equità. Riesaminate i processi decisionali, le vostre gerarchie interne, i vostri messaggi e la vostra morale, la composizione demografica del vostro team e così via, chiedendovi quale sia la voce sottorappresentata, chi abbia bisogno di più supporto e dove la disuguaglianza si stia intrufolando nel vostro ecosistema.

In secondo luogo, direi di fare una ricerca su come migliorare. Leggere più libri, ascoltare più podcast, partecipare a più conferenze e webinar, qualunque sia il supporto preferito, cercate di imparare qualcosa di nuovo al di fuori della vostra esperienza personale. Si può anche fare riferimento ad altri leader e aziende inclusivi, scoprire cosa stanno facendo bene e modellare quell’azione nella propria azienda. Se altri ci vedono impegnati in questa rigorosa introspezione, il messaggio che le persone attorno a noi percepiranno è che l’inclusione non è solo un valore organizzativo, ma anche personale.

Infine, ascoltate in modo attivo il vostro team e scoprite di cosa ha bisogno per essere supportato al meglio e progettate le vostree soluzioni in base alle loro esigenze. Richiedete un feedback sulle vostre capacità di leadership e fate domande specifiche a colleghi fidati su come si potrebbero inavvertitamente perpetuare pregiudizi ed esclusione sul lavoro. Ma con le orecchie aperte dovete anche avere un cuore aperto: non chiedete suggerimenti se non siete disposti a integrarli».

Quando si parla di diversità e inclusione, tendiamo a fare riferimento a categorie. Non crede che la vera sfida per superare pregiudizi e stereotipi sarebbe trattare ogni persona sul posto di lavoro come “unica”, facendo del proprio meglio per aumentare il proprio potenziale?
«Credo fermamente che l’idea di unicità sia al centro di ciò che riguarda la diversità e l’inclusione. Si tratta di onorare la differenza, non di cancellarla. Quando tratti ogni individuo come un essere umano unico con una storia e un background speciali, troverai più facile fornire supporto in modi significativi poiché stai intrinsecamente tenendo conto delle sfumature che informano la loro esperienza. Trattare ogni componente del team come unico evidenzia anche la differenza tra uguaglianza ed equità. L’uguaglianza è qualcosa di facile da sostenere in teoria, perché è un obiettivo lontano e idealizzato. L’equità, invece, implica che comprendiamo che il campo di gioco è irregolare, poiché non partiamo tutti dallo stesso punto e non abbiamo le stesse opportunità. L’equità riconosce che ognuno è unico e, come tale, richiede un’attenzione personalizzata che guidi verso il successo».

Recenti proiezioni basate su scenari economici modellati da McKinsey e Oxford Economics stimano che l’occupazione per le donne potrebbe non tornare ai livelli pre-pandemici fino al 2024, due anni interi dopo una ripresa per gli uomini. Cosa pensa di questo scenario? Quali dovrebbero essere le strategie più efficaci per accelerare il ritorno delle donne nel mondo del lavoro?
«È vero, purtroppo lo scorso anno ha visto un esodo di massa di donne dalla forza lavoro. C’erano una serie di fattori, ma la causa principale era la pressante necessità di aumentare l’assistenza all’infanzia 24 ore su 24, il che inevitabilmente pone un onere sproporzionato soprattutto sulle donne. Un numero quattro volte superiore di donne rispetto agli uomini ha abbandonato la forza lavoro nel settembre 2020.

Gli effetti negativi della disoccupazione diventano anche più acuti con l’età. Le donne disoccupate hanno il 18% in meno di probabilità di trovare un nuovo lavoro tra i 50 e i 61 anni anziché tra i 25 e i 34 anni. E a 62 anni o più hanno il 50% in meno di probabilità di essere riassunte, secondo una ricerca dell’Urban Institute. Inutile dire che ora siamo un po’ in una crisi nazionale quando si tratta di parità di genere sul posto di lavoro, il che mostra con quanta facilità i progressi possano essere invertiti. Per accelerare il ritorno delle donne nel mondo del lavoro, occorrono alcuni cambiamenti.

Da una prospettiva politica più ampia, è necessario intraprendere azioni immediate e a lungo termine per rafforzare le infrastrutture di assistenza all’infanzia, il che significa che devono essere fatti grandi investimenti in questo ambito. Le singole aziende dovrebbero anche stabilire politiche lavoro-famiglia più progressiste e di sostegno, in modo che le donne non siano penalizzate per aver avuto figli. Passando al livello di responsabilità personale, il lavoro domestico deve essere equamente ridistribuito in modo che tutti i partner coinvolti si assumano la loro giusta quota. Anche se questa è solo la punta dell’iceberg, vorrei indicare queste tre cose come punti di partenza sulla strada del recupero».

Quanto è importante un cambiamento culturale nelle famiglie, nelle aziende e nella società e, dall’altra parte, nei servizi, nelle leggi ecc. Cosa può aiutare a cambiare quella cultura?
«Penso che questa domanda ci porti al costante tira e molla tra cambiamento culturale e sistemico. Il cambiamento culturale è quello che avviene a livello individuale. Sono i tuoi amici e le tue famiglie, i tuoi colleghi e colleghi, la tua organizzazione e la tua comunità: sono coloro di cui ti circondi regolarmente e come li esorti a essere più inclusivi nel pensiero e nel comportamento. Il cambiamento sistemico è il cambiamento messo in atto attraverso la struttura. Sono i servizi pubblici, i progetti di legge e le leggi, le politiche e le petizioni, i mandati governativi e i funzionari eletti: sono i sistemi più ampi all’interno dei quali opera la cultura. E quando si tratta di promuovere la diversità e l’inclusione, entrambe sono assolutamente essenziali. Non puoi averne uno senza l’altro. Il tuo lavoro come individuo o gruppo è individuare dove puoi esercitare la massima pressione e farlo con coerenza. Tutto si riduce al privilegio e alla posizione personali».

L’8 marzo festeggeremo la Giornata internazionale della donna. Il tema della campagna di quest’anno è #ChooseToChallenge: le piace?
«Assolutamente sì, penso che parli davvero dell’idea che essere inclusivi può essere scomodo perché implica necessariamente andare contro lo status quo e assumersi dei rischi, ma alla fine dobbiamo prendere quella decisione intenzionale se vogliamo vedere progressi sul fronte dell’equità di genere. Dico spesso che la leadership, per essere tale, presuppone una buona dose di discomfort: se non ti stai spingendo a fare di più e non stai spingendo gli altri intorno a te a seguire l’esempio, non stai facendo abbastanza.

Per me, #ChooseToChallenge è un riconoscimento di quel disagio e una dichiarazione che sei disposto ad avventurarti fuori dalla tua zona di comfort. Penso anche che sia un ottimo invito all’azione per coloro che non si identificano con le donne. Può essere allettante per i leader non femminili chiudere un occhio sulla lotta per l’equità di genere poiché potrebbero credere che non li riguardi, e in effetti, molti lo fanno da decenni. Ma questo viaggio richiede che tutti si assumano la loro giusta parte di responsabilità. Quando scegli di parlare, scegli di difendere gli altri e, sì, scegli di sfidare, stai dicendo al mondo: “Sono pronto a fare il passo dove e come posso”».


Jennifer Brown è una delle principali esperte in tema di diversity e inclusion negli Stati Uniti. Da New York offre consulenza su questi temi, attraverso la sua società, ad aziende e realtà non profit. Speaker attiva su questioni legate alla leadership e al management, è autrice di Inclusion e di How to be an inclusive leader, appena uscito in libreria, dove propone un percorso passo dopo passo per i manager e i suoi collaboratori finalizzato alla creazione di ambienti di lavoro inclusivi, a tutto vantaggio di produttività e benessere delle persone. https://jenniferbrownspeaks.com/


Facebook
LinkedIn
WhatsApp

Potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca