Jean-François Manzoni: quei manager che portano i collaboratori a fallire

Il nuovo presidente dell’International Institute for Management Development di Losanna Jean-François Manzoni, esperto di leadership e studioso delle relazioni disfunzionali nel mondo delle imprese, ha rilasciato al quotidiano svizzero Le Temps un’intervista in cui descrive la sindrome del fallimento programmato, ovvero come un dirigente può far diventare meno performanti i suoi collaboratori.



Di cosa si tratta? Nell’intervista Manzoni spiega che insieme al collega Jean-Louis Barsoux, senior research fellow all’IMD, ha dimostrato che quando un superiore inizia ad avere dubbi sull’efficacia di un collaboratore si instaura una dinamica particolare. Il responsabile tende a fornire delle istruzioni sempre più specifiche, effettua un monitoraggio serrato e i suoi rapporti con il collaborate divengono tesi, nonostante cerchi di nasconderlo.


Quali sono le conseguenze di questo comportamento? In pratica, il collaboratore percepito come non performante capisce che è fonte di malcontento. La supervisione serrata prova un abbassamento della sua motivazione e dell’autostima che si traduce inevitabilmente in un abbassamento della sua performance. Sostanzialmente si instaura un circolo vizioso.



Ma perché i manager non si rendono conto di avere un approccio controproducente di fronte a questi problemi? Per tre ragioni: la prima è che il manager tende a credere di aver fatto del suo meglio per aiutare il collaboratore, ma di fatto ha instaurato una dinamica che colpisce la performance di quest’ultimo. I risultati sempre più negativi del collaboratore rappresentano una conferma dell’opinione di partenza del manager.
Il secondo motivo è rappresentato dal pregiudizio della conferma. Gli esseri umani vedono ciò che vogliono vedere, interpretano le informazioni secondo le loro opinioni e si ricordano i fatti in modo distorto. Se ad esempio un collaboratore ha un abbassamento della sua performance per il 30% del suo tempo, il superiore può far crescere questa percentuale fino al 60% e non vede più il 40% delle performance positive, oppure attribuisce i risultati positivi del collaboratore a dei fattori esterni (il compito era molto semplice, qualcuno lo ha aiutato, ha avuto molto tempo a disposizione). È una riduzione di dissonanza cognitiva: l’essere umano non ama avere due opinioni contrarie nella sua mente.
Il terzo motivo è che durante questa fase il collaboratore si rende conto di quello che sta accadendo e perde la stima nei confronti del suo superiore, attribuendogli a sua volta un’etichetta negativa e si comporta in modo che dimostra questa bassa considerazione. Il superiore a questo punto lo percepisce e questo processo ha due conseguenze: il manager rinforza le sue opinioni negative e la scarsa stima nei confronti del collaboratore e il collaboratore, a sua volta, quando il manager offre feedback positivi, tenderà a non considerarli, tendendo ad escludere a sua volta le informazioni non congruenti. Riassumendo, si innescano due circoli viziosi che si rinforzano a vicenda.



Questa dinamica non è appannaggio dei cosiddetti “manager perversi” (una percentuale molto piccola) ma viene messa in atto nella maggioranza dei casi secondo le migliori intenzioni, poiché lo scopo dei manager è di limitare i danni o trovare in fretta una soluzione ai problemi legati ai suoi collaboratori.

Come si esce da questa spirale negativa? Purtroppo molto spesso in modo doloroso: in molti casi, spiega Manzoni, il collaboratore dà le dimissioni oppure viene licenziato.



Ma c’è una via migliore: rendersi conto di essere all’interno di un circolo vizioso, instaurare un dialogo proficuo e onesto con il collaboratore e, da parte del manager, mettersi davanti a uno specchio cercando di capire i suoi errori e le conseguenze del suo atteggiamento nei confronti del collaboratore.

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