Diversity, gender gap… tante sono le parole e le iniziative che da anni ci parlano di un’evoluzione del rapporto tra i due sessi nel lavoro e nella vita di tutti i giorni. Ma poi, a conti fatti, come stanno davvero le cose? Ne parliamo con Anna Zinola, che sul tema ha scritto un libro: “Diverso da chi – L’inclusione come strumento di marketing”.
Si fa presto a dire inclusione, ma come stanno oggi le cose in Italia e nel mondo?
«L’inclusione è uno dei temi caldi della nostra società. Se ne parla online, sulle testate di informazione e sui social media. È oggetto di dibattito politico (come dimostra il lungo e contrastato iter del decreto legge Zan) e ci tocca quotidianamente a più livelli. Se però passiamo dalle parole ai fatti, la situazione cambia. Le realtà – a partire dalle aziende – davvero inclusive sono poche. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai consigli di amministrazione delle imprese, che sono presidiati da persone estremamente omogenee in termini di genere, età, formazione e così via».
L’inclusione è solo quindi uno strumento di marketing?
«Purtroppo, spesso è solo uno strumento di marketing! Alcune aziende attuano, al loro interno, delle politiche realmente inclusive, ma, per la maggior parte, è soprattutto (se non soltanto) un business. Per queste aziende l’obiettivo è duplice: da un lato puntano a presidiare un posizionamento distintivo e incrementare la brand awareness, dall’altro lato cercano di ampliare il bacino dei consumatori, allargarsi a nuovi segmenti e incrementare il fatturato».
In ogni caso, chi a livello di brand e settore ha fatto le migliori azioni di marketing a questo livello?
«Sicuramente Fenty Beauty, il brand di Rihanna, è un esempio interessante. Con il suo fondotinta Pro Filt’R ha segnato l’inizio di un cambiamento nel makeup. Grazie all’introduzione di oltre 50 nuance, ha permesso di trovare la base giusta a donne di etnie (ed età) diverse. Certo, il tutto ha funzionato poiché all’origine c’è Rihanna. Una donna che non si è mai tirata indietro di fronte alle critiche e, anzi, ne ha fatto un punto di forza. Questo genere di operazioni, infatti, funziona se e quando c’è, all’origine, qualcuno che non solo crede davvero nel valore della differenza e nella bellezza dell’imperfezione, ma rappresenta quegli stessi valori attraverso il proprio comportamento».
Tutto sommato, se il marketing e la comunicazione sono ben fatti e toccano le corde delle persone, possono contribuire non poco a cambiare la mentalità e il costume, vero? Chi a questo livello ha fatto bene?
«Oltre a Rihanna, c’è il caso di Gucci, che per la pubblicità dei rossetti ha scelto Dani Miller, la cantante della band rock Surfbort, dalla bellezza fuori dagli schemi. In particolare il suo sorriso mostra uno spazio vuoto fra gli incisivi e i canini. Uno spazio vuoto che, nell’immagine pubblicitaria, è mostrato con sfrontatezza e orgoglio, a voler affermare che sono le imperfezioni a renderci unici, speciali. Un altro esempio è Tommy Hilfiger, uno tra i primi a creare una linea di abbigliamenti specificatamente dedicata a persone disabili. Si tratta di capi con speciali adattamenti che li rendono semplici da mettere o togliere. Sì, perché bottoni, cerniere e cuciture possono costituire ostacoli complessi per chi ha una disabilità».
I dati cosa dicono?
«I dati non sono positivi. Se andiamo a vedere la composizione delle organizzazioni (dalle aziende ai partiti politici), emerge una realtà che è ben lontana dall’essere inclusiva. Prendiamo, per esempio, il tema del genere: tutti parlano di empowerment femminile, ma i numeri raccontano un’altra storia. In base all’Osservatorio sulla Corporate Governance di The European House Ambrosetti, le donne che nel nostro Paese ricoprono il ruolo di Ceo sono il 6%, quelle che rivestono l’incarico di presidente del Cda arrivano al 22% nelle società di grandi dimensioni, ma rimangono sotto il 10% nelle aziende di media e piccola capitalizzazione. Fuori dai Cda la situazione non è migliore. Nel 2020 il tasso di occupazione femminile è stato pari al 49%, versus una media europea del 62,4%. E il covid ha colpito soprattutto il lavoro delle donne, tanto che si è parlato di shecession».
Come possiamo arrivare a un’inclusione vera e a una diversity che sia davvero valore? Anche con il marketing e la comunicazione, ma non solo così?
«Il marketing e la comunicazione possono sicuramente aumentare la sensibilità rispetto all’inclusione e alla diversity. Non solo: possono avvicinare persone che, per varie ragioni, sono meno attente a questi temi. L’importante è che non si risolva tutto lì, che le organizzazioni non si fermino lì, altrimenti il rischio è – per citare un vecchio film – l’effetto “sotto il vestito niente”».
Insomma, fatti e non parole direbbe qualcuno. Come possiamo andare a vedere chi è sincero e chi bara? E cosa possiamo fare per spingere l’inclusione?
«Riconoscere chi fa social washing, cioè chi cavalca l’onda dell’inclusione senza esserlo davvero, non è complicato ma implica uno sforzo. Si tratta, cioè, di verificare quali sono le azioni dell’azienda: come si comporta verso i dipendenti, che range e che tipo di prodotti offre, da quanto tempo si occupa di inclusione. Si tratta, appunto, di vedere quali sono i fatti, al di là delle parole. Fare questa verifica e operare delle scelte ragionate, premiando chi è davvero inclusivo, è un piccolo gesto che ognuno di noi può compiere per valorizzare le realtà che lo meritano e favorire la diffusione della diversity».