Il settore turistico è indubbiamente quello maggiormente colpito dalla crisi da Coronavirus. L’Enit (l’ultimo Bollettino pag. 10, è scaricabile qui) stima che nel 2020 il totale dei turisti in Italia diminuirà del 44%: un crollo corrispondente a oltre 50 milioni di presenze in meno, il 70% delle quali riguarderà turisti stranieri. Significa che nel nostro paese mancherà oltre la metà delle presenze estere.
Aggiungendo il calo delle presenze italiane, l’ente stima un crollo delle spese turistiche di 67 miliardi di euro per il solo anno in corso. Un bilancio impietoso, letteralmente bellico, in un settore peraltro a forte intensità di lavoro e presidiato in larghissima parte da microimprese, spesso familiari. A farne le spese sono ovviamente i gestori di attività ricettive, ma ne rimangono pesantemente coinvolti anche la ristorazione, il commercio al dettaglio, i servizi di intrattenimento, i trasporti, le guide turistiche e gli operatori dello spettacolo. Un piccolo esercito di persone, spesso poco e male rappresentate, che non è stato al centro delle iniziative di sostegno varate dal governo e soffre in più della massima incertezza rispetto al futuro.
Il calo maggiore dei flussi si registra attualmente nelle città d’arte, per le quali il crollo del turismo estero rappresenta un evento drammatico, con tassi negativi previsti generalmente oltre il 50%, ma con picchi superiori al 60% di presenze in meno a Firenze, Napoli, Venezia e Roma. Si parla evidentemente delle tappe irrinunciabili per qualunque turista che arrivi in Italia: oggi queste città sono sostanzialmente deserte e sempre l’Enit stima che i livelli 2019 non si raggiungeranno prima del 2023. Sempre ammesso che nel frattempo non sia accaduto qualche cambiamento strutturale, ad esempio nel trasporto aereo o nella regolamentazione dei movimenti delle persone.
In questo quadro a tinte cupe, il turismo interno appare quello più resiliente. Facilità di spostamento, costi minori, sostanziale certezza delle regole e maggiore “confidenza” potrebbero rappresentare i fattori per spingere gli italiani a compensare, almeno parzialmente, le perdite di flussi dall’estero. Appare quindi fondamentale, se non esiziale, sostenere questa possibilità con ogni strumento disponibile; tra cui – si ritiene – la massima valorizzazione dei siti artistici e archeologici, cosiddetti “minori”, che costituiscono un reticolo a maglia fitta che avvolge le grandi direttrici dei flussi turistici da cui tuttavia resta, spesso, oscurato.
L’Italia, come noto, ha da lungo tempo fatto la scelta di mantenere generalmente nel luogo di origine, o di ritrovamento, i propri tesori storici, artistici, archeologici. Un patrimonio che alcuni valutano essere la maggioranza dell’intero patrimonio mondiale: testimonianza di un territorio che ha avuto la sorte di essere per due millenni il centro del mondo, culla o crocevia dell’evoluzione della civiltà che definiamo “occidentale”. Tutto questo si traduce oggi, tra le altre cose, in migliaia tra musei, monumenti e aree archeologiche sparpagliati sull’intero territorio nazionale. Nel 2018 l’Istat, nel suo rapporto annuale, contava in Italia 4.908 tra musei, aree archeologiche, monumenti ed ecomusei aperti al pubblico: un comune italiano su tre possedeva almeno una struttura a carattere museale. Una ogni 6 mila abitanti, visitate da poco meno di 130 milioni di persone all’anno, circa metà delle quali provenienti dall’estero.
La parte del leone in questo scenario la fanno, evidentemente, le strutture museali, monumentali e archeologiche statali: pur rappresentando meno del 10% del totale, hanno accolto nel 2019 oltre il 42% dei visitatori totali. In cifre, le 479 strutture a carattere museale di natura statale sono state visitate l’anno scorso da 55 milioni di persone, di cui 25 milioni paganti, con un incasso lordo di poco superiore ai 240 milioni di euro, che si riducono a 200 milioni al netto di quanto spettante al concessionario dei servizi di biglietteria ove esistente (per tutte le analisi relative ai siti museali statali, si fa riferimento ai dati ufficiali Mibact, scaricabili qui). L’Istat ha stimato che, nel solo periodo di lockdown, l’Italia abbia già perso circa 80 milioni di euro di incassi (si veda il comunicato stampa).
L’Italia quindi, al netto dell’impatto dell’emergenza scatenata dal Covid, incassa dal suo patrimonio artistico e storico a gestione statale meno di quanto incassi da solo il Louvre: è vero che con quest’ultimo il confronto andrebbe opportunamente “pesato”, anche in ragione delle diverse politiche culturali e organizzative francesi, ma l’ordine di grandezza rimane significativo. Se poi si scende nel dettaglio di questi numeri, il quadro che ne emerge fornisce evidenze interessanti. I primi quattro siti statali accolgono un terzo dei visitatori totali e addirittura i due terzi degli introiti totali lordi. Se si allarga lo sguardo ai primi 15, arriviamo a poco meno della metà dei visitatori totali, che però rappresentano quasi l’85% degli incassi totali, come evidenziato nella tabella successiva.
In sintesi, lo Stato italiano gestisce poco meno di cinquecento siti museali, artistici e archeologici: poco più della metà sono a pagamento, ma l’incasso che ne deriva fa riferimento per la quasi totalità a un manipolo di essi, concentrati nelle grandi città d’arte e in tre regioni. Il 40% dei siti è in Lazio, Campania e Toscana, che però attirano l’80% dei visitatori complessivi. La nettissima maggioranza dei siti a pagamento rimanenti, circa 250, è sparpagliata sull’intero territorio nazionale e incassa in media 80.000 euro l’anno. Una somma nella maggior parte dei casi inferiore al costo dei soli addetti di biglietteria.
L’intero Veneto, ad esempio, ha 14 dei 16 siti statali a pagamento, ma nel 2019 ha incassato appena 3,3 milioni di euro lordi, nonostante l’invasione di cui spesso si duole Venezia. La Liguria ha incassato poco più di 400.000 euro dai suoi 11 siti statali a pagamento, ma il sito più visitato è uno dei soli due gratuiti: il Forte di Santa Tecla registra da solo il 30% circa del totale dei visitatori dei siti della regione ed è secondo solo alla Galleria di Palazzo Reale di Genova. Il Friuli Venezia Giulia ha, al contrario, solo 3 siti statali a pagamento su 14, ma ha incassato 1,5 milioni di euro nel 2019: derivanti in massima parte dal Castello di Miramare, che però totalizza solo il 10% dei visitatori, attirati in massima parte dal parco del Castello, gratuito.
Scendendo lungo la penisola, l’Umbria ha 13 siti statali, tutti a pagamento: nel 2019 hanno incassato appena 700.000 euro, lordi. Il vicino, piccolo Molise ha 12 siti statali, di cui ben 10 sono a pagamento: nel 2019 hanno incassato meno di 100.000 euro, tutti insieme, sempre lordi. Ben più grande l’Emilia Romagna, con i suoi 33 siti fruibili: nonostante siano quasi tutti a pagamento (solo 5 i gratuiti), l’incasso totale lordo 2019 è stato di poco superiore ai 3 milioni di euro.
La Calabria, culla della Magna Grecia, vanta 20 siti, di cui 11 a pagamento che incassano appena 800.000 euro lordi l’anno, tre quarti dei quali provenienti dal Museo Nazionale di Reggio Calabria, raggiunto da circa 200.000 persone l’anno per ammirare principalmente – immaginiamo – i bronzi di Riace. La Puglia annovera 18 siti statali, equamente divisi tra gratuiti e a pagamento, per un incasso totale lordo 2019 di 1,8 milioni di euro: che diventano appena 1,3 milioni al netto dell’aggio di biglietteria, probabilmente il più elevato d’Italia.
A livello di singoli siti, eclatante il caso del Pantheon: a ingresso gratuito, ha accolto oltre 9,3 milioni di visitatori nel 2019, pari al 55% del totale dei visitatori nei siti museali statali del Lazio.
Si potrebbe continuare con ulteriori esempi, ma il quadro d’insieme appare chiaro, in sostanza è innegabile che il nostro paese abbia centinaia di gioielli storico-artistici piccoli e grandi, sparpagliati sull’intero territorio nazionale che, quando sono a pagamento, incassano poco, talvolta cifre poco più che simboliche, certamente inferiori al solo costo degli addetti di biglietteria.
Perché allora non provare a classificare tutti i siti museali statali a ingresso gratuito, ad eccezione dei primi 10-15 siti per incassi totali, per i quali il biglietto d’accesso appare ancora come uno strumento necessario anche per la regolazione delle presenze? Una misura sperimentale, la cui efficacia potrebbe essere misurata in un arco di tempo di 18-24 mesi. Occorrerebbe naturalmente ristorare le singole amministrazioni dei mancati incassi, ma si tratterebbe di 20 milioni di euro all’anno: sul bilancio pubblico italiano e sulle somme già stanziate e in fase di stanziamento per l’emergenza pandemica, appare un importo assolutamente sostenibile. Immaginando peraltro che all’uscita molti visitatori comunque sarebbero invitati a lasciare un contributo libero, come avviene da sempre in alcuni dei principali musei mondiali, e utilizzando il personale di biglietteria per finalità di supporto e sorveglianza all’interno del sito, la perdita netta potrebbe essere addirittura trascurabile.
La misura rappresenterebbe una forte spinta a visitare siti e luoghi piccoli e grandi, magari per la prima volta, soprattutto se potrà essere allargata alle migliaia di siti a gestione non statale, spesso comunale. Anche utilizzando ove possibile lo strumento del biglietto multiplo, nel quale chi acquista il ticket per i siti maggiori si trova “attaccato” il biglietto gratuito di uno o più siti minori della zona. Stimolando non solo i flussi turistici ma anche spingendoli a ripartirsi sul territorio e a sostarvi più a lungo, a beneficio di tutti i micro-operatori in affanno e favorendo il distanziamento…turistico. Per non parlare dell’invito a tutti a riscoprire un Paese meraviglioso aprendo le porte dei suoi luoghi più preziosi e spesso semisconosciuti. Il più delle volte anche a noi italiani.
La pandemia ci ha messi di fronte a uno scenario tanto complicato quanto inedito, almeno nell’era moderna. La crisi economica che ne sta scaturendo è subito apparsa sistemica, pervasiva, arrivando a toccare un numero di persone inopinatamente elevato e diffuso in tutti gli strati sociali, in tutti i settori, sull’intero territorio nazionale. I tradizionali strumenti pubblici di sostegno appaiono, se non inutili, sicuramente poco adeguati.
Occorre trovare misure che riescano non solo a mobilitare le risorse ma, ci si consenta, anche a risvegliare l’animo delle persone. La proposta di utilizzare come leva l’immenso patrimonio artistico e storico del nostro paese per spingere un settore che oggi appare in fortissima difficoltà comporta costi tutto sommato risibili, sebbene non potrà essere risolutiva, come qualunque singola misura valutata, tuttavia potrà rappresentare un messaggio importante. Potente. Di orgoglio e di fiduciosa apertura. Sentimenti che oggi appaiono necessari, più che mai.