È inutile arrestare il cambiamento: adeguiamoci!

Come trasformare i nostri collaboratori in preziosi alleati, in un’ottica win-win, tra nuove esigenze e priorità. Il punto di vista di Nicolò Andreula, managing director Disal Consulting

Parliamo e viviamo da tempo la trasformazione del lavoro. Dal suo punto di vista, di cosa si tratta?
«È la tempesta perfetta: da un lato, l’avvento e lo sviluppo di megatrend come l’intelligenza artificiale e l’attenzione al cambiamento climatico stanno plasmando le mansioni e l’ambiente in cui un’azienda opera. Bisogna cambiare in fretta, investendo in tecnologia e competenze, stando attenti anche a migliorare o non peggiorare il luogo dove viviamo, cosa che spesso comporta costi aggiuntivi. Un giusto prezzo da pagare, ma che comunque pesa sui bilanci, almeno all’inizio. Dall’altro lato, una crescente richiesta di flessibilità, comprensione e attenzione all’individuo da parte del capitale umano sta spingendo le realtà imprenditoriali a rivedere e reinventare i modi e i luoghi di lavoro. E a trattare meglio i collaboratori, per provare a trattenerli e ad arginare le grandi dimissioni».

Come sta cambiando il lavoro oggi e come le aziende devono guidare e anticipare questo cambiamento?
«Oltre alle remunerazioni standard, come bonus e salari più alti, le aziende devono considerare anche incentivi estrinseci, come quelli citati da Daniel Pink: autonomia (organizzare il lavoro per obiettivi, provando a massimizzare la flessibilità spazio-temporale); investimenti in competenze trasversali; chiarificazione e coerenza di valori. Purtroppo, o per fortuna, fare soldi non basta più: bisogna avere un purpose. Ma occorre anche prepararsi a lavoratori sempre più esigenti e nomadi, adeguandosi a certi fenomeni, invece di contrastarli in ogni modo. Perché non provare a minimizzare la frizione e i costi del turnover, invece di offrire qualsiasi cosa a chi minaccia di andarsene? Standardizzando certi task, cristallizzando la conoscenza in banche dati aziendali, pensando a un onboarding più agile. È una provocazione, ma in attesa che le grandi dimissioni si trasformino in grandi rimpianti, bisogna attrezzarsi».

E i lavoratori?
«Paradossalmente, l’avvento dell’intelligenza artificiale sta arginando lo strapotere delle competenze Stem rispetto a quelle trasversali. Quindi, qualsiasi persona potrà avere un futuro senza saper programmare o perfino senza usare Excel, ma non senza capacità di comunicazione, project management e intelligenza emozionale. Non ci sono più scuse: chi non saprà riconoscere e gestire le emozioni proprie e degli altri, chi non saprà esprimersi in maniera originale e strutturata sarà sempre più a rischio di sostituzione da parte delle macchine. Quindi, ognuno di noi dovrà investire in competenze e assumersi la responsabilità della propria formazione, in azienda e nel privato. Inoltre, a maggiore libertà corrispondono maggiori rischi di distrazione e isolamento, quindi bisognerà sapersi dare obiettivi e disciplina senza il fiato sul collo del manager».

Qual è e come cambia in questo nuovo scenario in continua evoluzione il ruolo dei manager?
«Il manager del futuro non saprà fare solo strategia, ma anche scenario planning, una disciplina che prepara ad affrontare proattivamente sconvolgimenti anche poco probabili: non dovrebbe essere dominio solo di pochi eletti in azienda, ma una mentalità diffusa a tutti i livelli che serve a sviluppare la cosiddetta “antifragilità”, che il mio amico Beppe Stigliano ha recentemente definito come the ability to thrive in caos. Poi, oltre ad abbandonare un comportamento strettamente autoritario a favore di un approccio che consideri e valuti il ruolo delle emozioni e delle vulnerabilità in un contesto professionale, occorre che il manager del futuro sappia creare lo spazio per permettere al suo team di sbagliare ed emergere. È così che si generano piccoli e grandi intrapreneurs».

Viene prima la trasformazione del lavoro o quella dei lavoratori?
«Dipende da chi paga. Se un’azienda ha abbastanza risorse per potersi permettere un periodo di adeguamento di competenze e mentalità al mondo che cambia, allora viene prima la trasformazione del lavoro e poi quella dei lavoratori. Altrimenti, bisognerebbe investire per tempo nella trasformazione dei lavoratori e creare le condizioni per permettere (o chiedere) che siano loro a richiedere il cambiamento, a fare innovazione dal basso verso l’alto, a imparare dai propri errori mettendo in piedi strutture e processi “a prova di futuro”».


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