La comunicazione non è più quella di una volta. Cosa significa comunicare un brand o un’azienda oggi?
«Comunicare oggi non significa più dire qualcosa di sé, ma farsi percepire in un certo modo. L’ecosistema media in cui viviamo è iperconnesso, ogni parola, gesto o silenzio viene interpretato e condiviso. La comunicazione è diventata quindi una forma di governo della presenza: non basta esserci, bisogna dare senso a ogni forma di apparizione pubblica.
Il vero valore non sta nella quantità di messaggi diffusi, ma nella coerenza percettiva che un brand riesce a mantenere nel tempo. Oggi non si tratta più solo di “comunicare bene”, ma di abitare la mente collettiva con un’identità chiara e riconoscibile.
Ci sono aziende che costruiscono relazioni solide non perché parlano di più, ma perché sanno far sentire il proprio ruolo e la propria utilità nella vita delle persone».
La percezione come fa la differenza tra essere seguiti o ignorati?
«La percezione è la vera valuta del nostro tempo. Non conta quanto comunichi, tutti comunicano, ma come vieni sentito e ricordato. Un brand può essere tecnicamente eccellente, ma se non genera fiducia o empatia, resta invisibile.
Nell’epoca della saturazione narrativa, la differenza tra essere seguiti o ignorati dipende dalla qualità percettiva che riesci a imprimere nella mente e nel cuore del tuo pubblico. In molte realtà oggi si “vince” non con l’offerta più competitiva, ma con la reputazione più credibile.
Ci sono aziende che riescono a spostare interi mercati non cambiando il prodotto, ma il modo in cui vengono percepite: da fornitrici di servizi a partner di senso per clienti e comunità».
ROI comunicazione dichiara di mettere al centro perception management, emotional design e storytelling. Cosa c’è di nuovo?
«Abbiamo scelto di integrare tre discipline che, di solito, vivono separate: analisi percettiva, progettazione emozionale e narrazione operativa-strategica.
Questo ci permette di passare dalla comunicazione come attività tattica alla comunicazione come governance della percezione: nelle attività di comunicazione e marketing; nelle attività a supporto delle direzione HR (abbiamo creato un set di strumenti che supportano il coinvolgimento delle persone nel loro ciclo di vita aziendale: dall’attraction all’off-boarding); nella comunicazione dei leader.
Non ci limitiamo a diffondere messaggi o a realizzare strumenti, ma costruiamo ecosistemi narrativi coerenti, capaci di generare valore reputazionale e relazionale: interno ed esterno alle organizzazioni. Oggi le aziende non possono più pensare alla comunicazione come una funzione isolata.
Devono vederla come un sistema di influenza che unisce cultura interna, esperienza del cliente e presenza pubblica. Ci sono imprese industriali, ad esempio, che hanno riscoperto il proprio ruolo culturale nel territorio e hanno trasformato quella consapevolezza in un vantaggio competitivo».
Come definirebbe il concetto di perception management?
«Il Perception Management è l’arte e soprattutto la scienza di progettare la realtà percepita. Le percezioni si possono progettare! Questo significa comprendere come diversi stakeholder – clienti, dipendenti, media, istituzioni – interpretano un’organizzazione, e lavorare per allineare questa percezione con l’identità e gli obiettivi dell’impresa.
È un processo di ascolto, diagnosi, regia narrativa e intervento mediatico. Dalla prima parola scelta nel discorso per raccontarsi in Convention all’ultima immagine usata per comunicare su Instagram.
Gestire la percezione non è un’azione manipolatoria, ma un esercizio di consapevolezza. Ci sono aziende che misurano regolarmente non solo le performance economiche, ma anche la distanza tra ciò che sono e ciò che le persone pensano che siano.
In molti casi, questa analisi ha permesso di riattivare fiducia, riposizionarsi e ricucire legami con i propri pubblici».
In un mondo sempre più visivo ed emotivo, quale ruolo gioca l’emotional design nella costruzione dell’identità di marca?
«L’Emotional Design è la grammatica della fiducia. Le persone – clienti, dipendenti, e stakeholder – non ricordano ciò che dici, ma come le fai sentire. Progettare emozioni significa costruire esperienze coerenti, visive, linguistiche e comportamentali , che trasformano un messaggio in sensazione.
È il passaggio dal marketing dell’attenzione al marketing del sentire, dove l’estetica e l’etica del brand si incontrano. Ci sono realtà sanitarie, tecnologiche e finanziarie che stanno riscoprendo il valore di un linguaggio più empatico, meno tecnocratico.
Hanno compreso che la fiducia nasce da atmosfere coerenti e da gesti riconoscibili, non da slogan. E quando l’emozione è autentica, diventa capitale reputazionale».
Lo storytelling è centrale da anni. Qual è oggi la chiave per raccontare storie autentiche e memorabili?
«Non basta più raccontare storie: bisogna costruire universi narrativi coerenti. L’autenticità nasce quando ciò che un’azienda dice, fa e rappresenta si muove nella stessa direzione. Le storie non servono a promuovere, ma a generare senso.
Una narrazione è memorabile solo se diventa abitabile, se permette alle persone di riconoscersi nei valori che propone. Lo storytelling efficace è quello che rispetta la complessità. Ci sono leader che non nascondono le proprie fragilità ma le integrano nel racconto della loro crescita.
E aziende che scelgono di mostrare i propri percorsi, non solo i risultati. È in questa trasparenza che nasce la credibilità emotiva».
Quali sono le sfide principali nel gestire la percezione di un brand in un contesto digitale così fluido?
«La velocità è la prima sfida. La percezione oggi cambia più rapidamente dei fatti, alimentata da flussi continui di contenuti e interpretazioni. Serve una cabina di regia percettiva e narrativa costante, capace di leggere i segnali deboli, anticipare i trend emotivi e mantenere coerenza anche nei momenti di crisi.
Ci sono brand che si stanno trasformando in veri e propri organismi narrativi adattivi: sistemi che ascoltano in tempo reale, decodificano i sentimenti collettivi e rispondono con linguaggi coerenti alla propria identità».
Come si bilancia la creatività con l’analisi dei dati e delle performance nella vostra strategia comunicativa?
«La creatività senza analisi è cieca, ma l’analisi senza immaginazione è sterile. I dati ci dicono cosa accade, la narrazione ci spiega perché accade. La percezione ci dice come farlo accadere.
In ROI Comunicazione partiamo da un ascolto strutturato delle percezioni e traduciamo i risultati in content strategy narrative che si declinano poi in media, canali e strumenti.
Da qui realizziamo poi le campagne di comunicazione e marketing, ma anche people engagement a supporto delle direzione HR. Sempre più aziende stanno comprendendo che i dati non devono guidare la comunicazione o il convolgimento delle persone, ma nutrirla.
Le metriche diventano strumenti di empatia: ci aiutano a capire gli stati d’animo del pubblico, i sentimenti di vita, e a rispondere con contenuti più significativi. È un equilibrio dinamico tra scienza e sensibilità».
Quali competenze ritiene fondamentali per i professionisti della comunicazione del futuro?
«Serviranno tre intelligenze nuove: culturale, emotiva e narrativa. Chi comunicherà dovrà saper leggere la società, interpretare gli stati d’animo collettivi e costruire connessioni di senso. Le tecnologie evolveranno, ma la capacità di comprendere e dare significato resterà profondamente umana.
Ci sono giovani professionisti che oggi entrano nelle aziende come “traduttori di senso”: figure capaci di unire psicologia, linguistica e strategia. È questo approccio ibrido che renderà la comunicazione del futuro più evoluta, più responsabile e, paradossalmente, più umana».
In che modo ROI Comunicazione si differenzia dai competitor?
«Siamo nati per superare la frattura tra consulenza e creatività. ROI Comunicazione unisce analisi, strategia, storytelling, design esperienziale e perception management in un processo unico, orientato alla governance percettiva. Non realizziamo solo campagne, che sono una ricaduta, ma costruiamo sistemi narrativi capaci di generare fiducia, influenza e reputazione duratura.
Molte agenzie lavorano sui contenuti, noi lavoriamo sulle percezioni che quei contenuti devono generare. Aiutiamo le organizzazioni a diventare raccontabili, cioè capaci di far emergere la propria identità in modo chiaro e coerente. In un’epoca di rumore comunicativo, la vera differenza sta nella trasparenza percepita».
Come si costruisce una relazione emotiva tra brand e pubblico senza cadere nella manipolazione?
«L’emozione non è manipolazione se nasce dalla verità del brand. Le persone percepiscono subito la finzione: la fiducia si costruisce con autenticità e coerenza.
Comunicare emozioni significa condividere vulnerabilità, non ostentare perfezione. O magari porsi al fianco delle persone come ha fatto un noto brand mettendo un punto di domanda nelle sue recenti campagne.
Questo ti pone non sopra le persone ma al fianco, come compagno di viaggio che dice: “Non sono migliore di te. Non ho verità da indicarti ma posso fare un pezzo del cammino con te”. Questo significa mostrare la propria umanità, anche nei momenti difficili. Questa sincerità è la chiave per costruire relazioni emotive durature. La manipolazione spegne la fiducia, la coerenza la accende».
Guardando al futuro, quali evoluzioni immagina per una comunicazione che mette al centro emozione e percezione?
«Il futuro sarà ibrido e sensoriale. L’intelligenza artificiale ci aiuterà a gestire i flussi informativi, ma dovremo restare autori e curatori del senso. La sfida sarà umanizzare la tecnologia e restituire profondità all’esperienza comunicativa.
Vedremo aziende che costruiranno esperienze integrate, dove narrazione, design emotivo-percettivo e presenza reale si fondono. E leader che capiranno che comunicare non è un obbligo, ma una responsabilità di business.
Il futuro della comunicazione sarà quello di sempre: cercare riconoscimento. Solo che dovremo imparare a farlo con più empatia, più ascolto e più consapevolezza narrativa».
