All’interno delle iniziative volte a comprendere il futuro della comunicazione e dei comunicatori, l’Area Comunicatori di Manageritalia Executive Professional ha lanciato un’indagine realizzata da AstraRicerche, in collaborazione con COM&TEC e tekom Europe.
Per approfondire prospettive e sfide in questo ambito strategico, abbiamo raccolto il punto di vista di Paola Bonini, consulente Rai e docente all’Università di Bologna.
Quando tutti comunicano, comunicare è sempre più una cosa da far fare ai professionisti?
«Dipende dall’obiettivo che si vuole perseguire. Che tutti comunichino non è una novità, l’abbiamo sempre fatto; la novità di questo secolo è il numero di destinatari che chiunque potenzialmente può raggiungere condividendo i suoi messaggi. E se l’obiettivo è veicolare un messaggio professionale – la comunicazione di un prodotto, di un brand, di un progetto o di un’istituzione, per intenderci – è una buona idea che il soggetto chiamato a ragionare sulla sua diffusione sia consapevole di ciò che fa e competente nel farlo. La tentazione di cavalcare soluzioni facili, attrattive o magari meno costose, misurate, per esempio, sul mero numero di follower su una piattaforma, può essere forte; ma quello che si rischia, spesso, è la reputazione. La comunicazione non va confusa con la ricerca di visibilità, insomma».
Cosa è cambiato e/o sta cambiando di determinante nella comunicazione oggi e in ottica futura?
«Gli aspetti tecnici. Chi fa comunicazione oggi non può prescindere dalla conoscenza delle logiche degli algoritmi, per esempio. Per anni ci siamo ripetuti che la comunicazione – e l’informazione – si erano disintermediate, perché sulle piattaforme digitali chiunque poteva arrivare direttamente al suo pubblico; col tempo abbiamo scoperto però che gli algoritmi della piattaforme sono mediatori a loro volta, di altro stampo e molto più tirannici: per far arrivare un messaggio al pubblico bisogna negoziare in prima battuta proprio con i parametri che le piattaforme decidono di usare per mostrare il contenuto tout court, decidendo se “intratterrà” il pubblico abbastanza da nutrire i suoi interessi, oppure, come si è sempre fatto, pagare. La crescita e la diffusione a tutti i livelli dell’AI è destinata a spingere ancora oltre la tendenza».
Come cambia il ruolo di chi comunica e lo fa come professione?
«Viviamo nell’economia dell’attenzione: un oceano di contenuti ci piove addosso da qualunque piattaforma e canale senza soluzione di continuità e a chi comunica si presenta la sfida costante di catturare occhi e orecchie dei destinatari, anche solo per un momento, e per giunta dopo aver convinto degli algoritmi di avere titolo per farlo. Non c’è dubbio che questo spinga a un cambiamento: il rischio è che questo si risolva – come purtroppo spesso avviene – nell’inseguire a tutti i costi la soluzione più clamorosa, i toni più accesi, l’evocazione delle emozioni più crude, la reazione impulsiva. Voglio credere che il ruolo di chi comunica, in qualunque ambito, sia invece fare il contrario: rallentare. Costruire universi di senso, in qualunque ambito, nei quali il pubblico possa fermare l’ansia di non poter consumare tutto e trovi spazio per capire, apprezzare, valutare e decidere».
Quali i tre must-have per un comunicatore oggi?
«Deve essere una persona curiosa: la creatività, le idee nascono e si nutrono solo negli stimoli e nei confronti (nulla di nuovo, in questo). Rispetto al passato, deve avere poi una vocazione transdisciplinare: la conoscenza delle evoluzioni mediatiche e tecnologiche, oltre che dell’impatto che queste hanno sulle abitudini del pubblico, è imprescindibile. Infine, deve essere estremamente flessibile, perché il ritmo a cui si muovono le novità – pensiamo solo all’approdo al pubblico dell’AI generativa, o ai cambiamenti di paradigma delle piattaforme – è sostenuto come mai in passato».
Cosa serve per valorizzare il ruolo dei comunicatori?
«Diffondere cultura, immagino, perché oggi continua a prevalere l’idea per cui certi lavori li possa fare “chiunque, a meno”. Se si comprende che una buona comunicazione è una chiave di affermazione di un progetto, di un brand, di un ente, è cruciale riconoscere che a realizzarla debba essere qualcuno che ha le carte in regola per farlo e che quella persona vada coinvolta nelle decisioni strategiche fin dal principio».
Cosa serve a un comunicatore per gestire attivamente ruolo e sviluppo professionale?
«Molta pazienza! Scherzi a parte: la consapevolezza di non potersi fermare mai, quindi l’aggiornamento continuo, la capacità di coltivare la propria creatività e di spiegarne i frutti, la disponibilità all’ascolto e una buona dose di empatia. E poi l’abilità di stare sul mercato, naturalmente: chi comunica, soprattutto se è in libera professione, deve comunicare in prima istanza la sua persona e questo, per paradosso, spesso è l’aspetto più difficile».
Basta che ne parlino o…?
«No! Facciamo tutti uno sforzo collettivo per far vincere la qualità sulla quantità?».