Giorgio Spina, ceo di Execus
In una sala riunioni di una qualsiasi agenzia di marketing, un direttore creativo osserva il monitor: in pochi secondi un algoritmo ha generato diverse varianti di una campagna pubblicitaria che il suo team avrebbe impiegato settimane a concepire. La scena, ormai quotidiana nelle agenzie di tutto il mondo, cristallizza un interrogativo che attraversa l’intero settore: l’intelligenza artificiale è la più grande opportunità o la più insidiosa minaccia per la creatività nel marketing digitale?
AI nel marketing: da moda passeggera a infrastruttura di base
Nel 2025, quasi tre marketer su quattro (76%) utilizzano strumenti di AI a livello mondiale. Un tasso di crescita enorme rispetto al 2021, quando la percentuale era ferma al 29% (Ibm Global AI Adoption Index). Anche gli investimenti sono cresciuti rapidamente, registrando un tasso di crescita annuo composto (Cagr) del 31,4% tra il 2020 e il 2025, tre volte più rapido rispetto al martech tradizionale (Forrester Research).
L’AI è ormai impiegata nel content marketing, nell’orchestrazione delle campagne, nella personalizzazione dei messaggi e nelle analisi predittive. Le aziende che hanno già adottato questi strumenti registrano risultati concreti: Roi più alto del 22%, click-through rate migliorati del 47% e campagne lanciate il 75% più velocemente rispetto a quelle costruite manualmente. Secondo le proiezioni, entro
il 2030 il 96-97% dei marketer utilizzerà l’AI come “infrastruttura di base” nelle strategie. Non una moda passeggera, ma un vero cambio di paradigma destinato a ridisegnare il futuro della comunicazione.
Quando la macchina diventa co-autore della creatività
In fin dei conti, con l’AI tutto è possibile, anche ciò che per noi è impensabile, poiché lo pensa e lo propone la macchina: l’algoritmo non si limita a eseguire comandi, ma diventa coautore del processo creativo, proponendo soluzioni che tal volta sfuggono ai pattern mentali umani, alle preferenze estetiche, ai preconcetti culturali che inevitabilmente influenzano ogni creativo.
La macchina opera senza i filtri dell’esperienza passata del singolo, senza i timori del giudizio del cliente che non conosce personalmente, senza le paure del fallimento commerciale. Genera associazioni tra concetti apparentemente estranei, combina stili visuali che non avremmo mai accostato altrimenti e propone narrative che un essere umano potrebbe non immaginare.
Prendiamo un caso concreto: un algoritmo di AI può analizzare simultaneamente migliaia di campagne di successo, identificare pattern emotivi nascosti nei colori, nelle forme, nelle parole, e generare una proposta creativa che fonde elementi di culture diverse, epoche storiche lontane, linguaggi espressivi eterogenei. Il risultato spesso stupisce per originalità e audacia, proprio perché privo delle autocastrazioni che la mente umana del nostro tempo si impone.
L’AI avrebbe potuto creare i capolavori del passato?
Eppure, se questa è la premessa, in realtà delle menti umane hanno già creato dei capolavori creativi che hanno segnato epoche intere, ridefinendo non solo il linguaggio pubblicitario ma anche l’immaginario collettivo. Questi capolavori sono nati da intuizioni geniali, da connessioni inaspettate tra idee apparentemente slegate, da quella capacità tutta umana di cogliere lo spirito del tempo e trasformarlo in messaggio universale.
“Think different” di Apple non è solo uno slogan, ma una filosofia che ha ridefinito il rapporto tra tecnologia e umanità. La campagna Marlboro non ha venduto solo sigarette, ma ha costruito un archetipo di mascolinità che ha attraversato generazioni. “Just do it” di Nike ha trasformato un brand sportivo in un manifesto motivazionale che trascende lo sport stesso.
Ma la domanda che emerge spontanea è provocatoria quanto necessaria: i più grandi capolavori della creatività pubblicitaria – dal “Think different” di Apple alla campagna Marlboro del 1980, dalla “Just do it” di Nike alle iconiche pubblicità Volkswagen degli anni 60 – la macchina sarebbe stata in grado di crearli? Forse avrebbe potuto, se guidata con i parametri corretti. E qui emerge la seconda grande dicotomia del marketing creativo nell’era dell’AI: il punto cruciale non è più l’esecuzione, ma chi definisce i parametri della creatività artificiale.
AI come strumento di potenziamento, non di sostituzione
La differenza fondamentale non sta più nell’esecuzione, ma nell’input strategico. L’AI può generare migliaia di varianti creative in pochi minuti, ma è l’essere umano che definisce l’obiettivo, il tono, il messaggio, il target. È l’umano che ascolta il mercato, che osserva criticamente il contesto sociale, che comprende le sfumature culturali.
Ecco perché l’AI nel marketing può risultare fondamentale in ogni fase del processo decisionale: consente di estrapolare, catalogare e sintetizzare informazioni utili dai dati grezzi per generare insight strategici. Ma rimane fondamentale dare importanza al processo creativo umano: l’AI diventa uno strumento di potenziamento, non di sostituzione, quando è un umano che con il proprio valore intellettuale e culturale fornisce il prompt.
Case study: campagne ibride e campagne “full AI” a confronto
Alcune campagne hanno di mostrato l’efficacia dell’approccio ibrido uomo-AI. Coca Cola, ad esempio, ha utilizzato l’AI per personalizzare messaggi creativi su scala globale, generando automaticamente centinaia di varianti dello stesso concept base per diversi mercati locali, ognuna ottimizzata per le specifiche preferenze culturali e demografiche del target.
Tuttavia, il cuore strategico della campagna – il messaggio emotivo centrale, i
valori del brand, la narrazione principale – è rimasto saldamente nelle mani del team creativo umano. Questo approccio ha permesso al brand di mantenere la coerenza globale mentre raggiungeva una personalizzazione locale prima impossibile da realizzare economicamente.
Diversamente, alcune campagne completamente generate dall’AI hanno mostrato limiti evidenti nella comprensione del contesto culturale e nella sensibilità sociale. Un caso emblematico è stata la campagna di Guess, che ha pubblicato sulle pagine di Vogue una campagna in cui la protagonista è interamente generata dall’intelligenza artificiale, scatenando il dibattito tra innovazione e deriva estetica.
Mentre alcuni hanno esultato per l’efficienza e il saving, altri hanno denunciato l’impatto su lavoro umano e la body positivity.
Bias e rischi nascosti: il fattore umano resta cruciale
I bias algoritmici rappresentano uno dei maggiori rischi nell’applicazione dell’AI al marketing creativo. Gli algoritmi di AI sono addestrati su dataset che riflettono inevitabilmente i pregiudizi della società, amplificandoli e perpetuandoli attraverso contenuti apparentemente oggettivi. Nel marketing, questo può tradursi in campagne che rinforzano stereotipi di genere, etnici o sociali, creando contenuti che sembrano innovativi ma sono in realtà profondamente conservatori nei loro assunti di base.
Non solo, l’AI può anche inondarci di informazioni sbagliate e contenuti fuorvianti che possono manipolarci. Il problema non risiede solo nella quantità di informazioni false che l’AI può produrre, ma nella loro qualità apparente: contenuti generati automaticamente che sembrano professionali, credibili, supportati da dati, ma che in realtà sono basati su correlazioni spurie o dataset inquinati. Il rischio è di prendere decisioni strategiche sbagliate con conseguenze economiche significative.
Ecco perché il fattore umano resta cruciale. I professionisti del marketing devono sempre più comprendere come funzionano gli algoritmi, quali sono i loro limiti intrinseci, come riconoscere quando stanno producendo risultati distorti.
Questo richiede una formazione continua che va oltre le competenze tecniche tradizionali e abbraccia aspetti sociologici, psicologici ed etici. Le aziende stesse dovrebbero inserire programmi di formazione specifici per i loro team creativi, insegnando loro non solo a utilizzare gli strumenti di AI, ma anche a interrogarli criticamente, a riconoscere i segnali di bias, a valutare la qualità e l’affidabilità degli output generati.
AI come acceleratore e minaccia per la creatività
L’AI nel marketing creativo è contemporaneamente la più grande opportunità e la più grande sfida degli ultimi decenni. È opportunità perché permette una personalizzazione su scala industriale, creando migliaia di varianti dello stesso messaggio ottimizzate
per micro-segmenti di audience specifici. Accelera l’innovazione, permettendo di testare rapidamente concept creativi diversi e identificare le direzioni più promettenti
prima di investire risorse significative nella produzione finale. E ha la capacità predittiva.
Gli algoritmi possono analizzare trend emergenti, sentiment sui social media, comportamenti d’acquisto per suggerire direzioni creative prima che diventino mainstream. È però al contempo sfida, perché richiede una ridefinizione delle competenze e della formazione professionale, solleva questioni etiche complesse e rischia di omologare la creatività se utilizzata acriticamente.
Tecnologia sì, ma con una scintilla di umanità
Il futuro apparterrà a chi saprà navigare questa dualità con intelligenza strategica, mantenendo l’AI come potenziatore della creatività umana, senza mai perdere di vista il valore insostituibile dell’intuizione, dell’empatia e della visione critica, che solo l’essere umano può apportare al processo creativo. In questo scenario, la vera differenza competitiva non sarà nell’avere accesso all’AI più avanzata, ma nel saperla utilizzare con saggezza, responsabilità e, soprattutto, con quella scintilla di umanità che nessun algoritmo potrà mai replicare del tutto.