A filo diretto con Maurizio Landini

Un dialogo con il segretario generale della Cgil su lavoro, tecnologia, il futuro delle relazioni sindacali e le sfide del management

Le nuove tecnologie impongono un forte ripensamento del lavoro?
Le nuove tecnologie hanno oggettivamente un impatto sulla persona e sulla società, e conseguentemente anche nel mondo del lavoro: cambiano le condizioni di lavoro, cambia l’integrazione uomo-macchina, cambiano i tempi di lavoro. E questo cambiamento procede a una velocità tale che è difficile trovare una transizione “equilibrata”. Infatti, dietro la facciata rivoluzionaria della tecnologia, c’è una realtà ricca di contraddizioni. Indubbiamente le tecnologie della comunicazione e dell’informazione potrebbero offrire opportunità per una diversa organizzazione del lavoro, più aperta, meno gerarchica, meno ripetitiva. La realtà però è assai diversa. Siamo in una situazione nella quale a un nucleo ristretto che detiene sapere e conoscenza fa riscontro un’area sempre più vasta di lavoratori e lavoratrici che svolgono attività ripetitive e che vedono a rischio e obsoleto il proprio bagaglio formativo. Inoltre, la digitalizzazione ha portato con sé una rivoluzione che è stata anche semantica, ma che rischia di farci dimenticare e portare in secondo piano la dimensione della persona, una visione che è sempre meno “umano centrica”: i big data non sono altro che tanti dati di tanti individui; i riders sono lavoratrici e lavoratori che ogni giorno corrono per le strade delle città per consegnare dei pasti; i pickers e i drivers di Amazon sono uomini e donne in carne e ossa che ogni giorno, per l’intera settimana lavorativa, corrono delle mezze maratone all’interno degli stabilimenti e poi ancora sulle strade con i loro furgoni per consegnare i nostri ordini.

Come vede, anche a questo riguardo, il mondo del lavoro oggi in Italia?
Il mercato del lavoro è cambiato e sta ancora cambiando. Uno studio dell’Ocse, “Negotiating our way up”, rileva che i sistemi di contrattazione collettiva dagli anni 80 in poi sono sottoposti a crescenti pressioni, indebolimento delle relazioni industriali, dello sviluppo di nuove forme di lavoro e al tempo stesso della trasformazione digitale, della globalizzazione e dei cambiamenti demografici.
Il prezzo della crisi finanziaria, cui è conseguita una crisi produttiva, si è scaricato prevalentemente sulle spalle della forza lavoro. La legislazione lavoristica ha segnato un deciso arretramento in tema di tutele ed è del tutto evidente che la rivoluzione digitale, se non governata, rischia di esacerbare le condizioni dei lavoratori e creare ulteriori polarizzazioni. Infatti, la polarizzazione nel mondo del lavoro è fenomeno evidente e conduce a una preoccupante separazione tra le persone. Dobbiamo ritornare a un pensiero ampio, collettivo e inclusivo. A tutto ciò dobbiamo rispondere con nuove forme di solidarietà.

Cosa dobbiamo cambiare?
Oggi abbiamo di fronte un mondo del lavoro frammentato, diviso. In tanti luoghi di lavoro ci sono lavoratori e lavoratrici che, pur svolgendo le stesse mansioni, hanno diritti e retribuzioni assai diversi tra loro. E questo produce divisioni e contrapposizioni tra gli stessi lavoratori. Il grande tema che il sindacato deve oggi affrontare è proprio la riunificazione del mondo del lavoro. E questo può e deve farlo su vari terreni e con diversi strumenti. Innanzitutto va affermato il principio che, a parità di mansioni, devono fare riscontro parità di diritti e di retribuzione. In secondo luogo c’è bisogno di una contrattazione inclusiva: capace, cioè, di definire un campo di condizioni e di diritti validi per tutti. A partire dalla formazione permanente, che deve diventare un diritto soggettivo della persona se si vogliono evitare nuove forme di marginalità e disuguaglianze.

E cosa ci dice delle leggi sul lavoro?
Occorre cambiare radicalmente l’impianto delle diverse leggi sul lavoro approvate nel corso di questi ultimi anni. Quelle leggi muovevano dall’assunto che abbassando l’asticella dei diritti si sarebbe avuta una nuova fase di crescita. In realtà si sono precarizzati i rapporti di lavoro, si è dato vita a una molteplicità di tipologie contrattuali, ma il paese resta in una condizione di grande difficoltà. Bisogna cambiare strada e riconoscere a tutti i lavoratori, quale che sia la tipologia del rapporto di lavoro, eguali diritti e tutele. Proprio in quest’ottica la Cgil ha promosso una proposta di legge di iniziativa popolare, la “Carta dei diritti universali del lavoro”, il cui impianto si basa proprio sull’assunto che diritti e tutele debbano essere universalmente riconosciuti in capo alle lavoratrici e ai lavoratori in quanto tali. Inoltre, sul tema che riguarda le nuove tecnologie e in particolare il digitale, noi abbiamo introdotto forse per primi la cosiddetta contrattazione dell’algoritmo.

Di cosa si tratta?
Se è un procedimento sistematico di calcolo a determinare modalità e intensità di prestazioni lavorative, performance individuali e redistribuzione di reddito, il sindacato deve esercitare il diritto di informazione non solo per conoscere come sia costruito questo processo di calcolo ma per contrattare, valutare, monitorare e controllare i dati all’origine. Spesso si parla di AI e algoritmi, senza prendere in considerazione che essi “funzionano se alimentati” da dati. Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, si è parlato un po’ di più di Data Ethics. Dall’alba di Internet la quantità e la qualità dei dati è aumentata drasticamente e continua ad aumentare in modo esponenziale e si pone, come necessità cogente, un’etica non solo dell’algoritmo e delle intelligenze artificiali, ma del dato stesso!

Ha ancora senso avere una netta distinzione tra lavoro dipendente e autonomo?
I confini fra lavoro autonomo e lavoro subordinato si sono fatti meno netti. È cresciuto il finto lavoro autonomo. È cresciuto un lavoro autonomo ma economicamente dipendente. Però, sì, ha ancora senso se sono figlie di decisioni libere e autonome del lavoratore che rispondono a esigenze e necessità di natura individuale, nell’alveo di una libera scelta personale. Questo non elimina a nostro avviso la necessità di riconoscere a tutte le lavoratrici e i lavoratori, in quanto tali, diritti e tutele universali. Penso ad esempio agli istituti della maternità o della malattia.

Come adeguare il welfare, quello europeo pubblico e privato, ai cambiamenti in atto?
Il welfare è il patto originario tra lavoro e capitale, caratteristica tutta europea. Se si vuole difendere o ripensare lo Stato sociale alla luce dei cambiamenti che nel mondo del lavoro stanno avvenendo, la dimensione locale o la dimensione nazionale non sono più sufficienti. Da questa constatazione nasce l’esigenza improrogabile di avere, per quel che ci riguarda, una visione almeno europea della costruzione di diritti nel lavoro e di costruzione – come si dice – di un’Europa sociale e dei diritti. Il cosiddetto Modello sociale europeo ha dimostrato la sua debolezza costruita sulle tante differenze degli stati membri. Abbiamo invece bisogno di più Europa. Più Europa unita e solidale che affermi l’universalità dei diritti sociali e politici come condizione e contenuto della democrazia.

Come sviluppare un modello di apprendimento continuo che accompagni i lavoratori lungo tutto l’arco della vita professionale?
In primo luogo, tornando ad investire sulla cultura, sulla conoscenza, sulla formazione. Bisogna fare esattamente il contrario di ciò che si è fatto negli ultimi anni nel nostro Paese. L’Italia ha drasticamente ridotto risorse e attenzione all’intero sistema formativo. La formazione quindi deve essere riconosciuta come diritto soggettivo, da prevedersi nei ccnl, e deve avere un’interazione stretta con il sistema formativo pubblico. Inoltre, percorsi di approfondimenti personalizzati, certificazione e “portabilità” delle competenze non possono più essere confinati solo nella prima fase del percorso educativo di una persona. Il diritto all’istruzione deve diventare, appunto, un diritto all’apprendimento permanente.

Qual è in questo contesto il ruolo dei sindacati dei lavoratori e delle imprese?
È tempo di rafforzare le relazioni sindacali e lo dico provocatoriamente in questo periodo storico dove le parole d’ordine paiono essere disintermediazione e annullamento dei corpi intermedi. Occorre la ripresa di un protagonismo della contrattazione e della rappresentanza, una rappresentanza certificata. Va fatto un ragionamento attento anche sui perimetri contrattuali e sulla strutturazione delle filiere. Più confederalità ed esercizio concreto di confederalità. Ma non basta: occorre dotarsi della capacità di rappresentare tutte le professionalità in ogni luogo di lavoro, ricostruendo un’azione e una rappresentanza unitaria. Perciò è fondamentale coinvolgere anche i tecnici e le alte professionalità. E anche qui la Cgil ha in seno un’associazione di rappresentanza sindacale, di livello confederale, che ha anche questa mission, Apiqa. Anche le imprese però devono fare la loro parte.

Qual è il ruolo dei manager?
Quadri e alte professionalità trovano cittadinanza all’interno del nostro sistema confederale. Crediamo nel valore aggiunto che queste figure possono portare anche all’azione sindacale in termini di rinnovata conoscenza ed elaborazione proprio sui nuovi temi di cui abbiamo parlato in questa intervista, ad esempio. La complessità è caratteristica del vivere comune ed è necessario un allargamento del dibattito e confronto a tutti i livelli. Così come nessuno disconosce il ruolo delle figure apicali e dei manager che rappresentano l’impresa. Anche qui però c’è bisogno di cambiare molto rispetto a quanto si è affermato in questi anni. Quel processo che è stato indicato come “finanziarizzazione” dell’economia ha prodotto un cambiamento profondo nel modo stesso di concepire l’impresa. Si è affermato un modello teso a favorire in ogni modo lo sviluppo senza limiti di attività finanziarie producendo così denaro fittizio. Gli stessi “premi” di alcuni “top manager” non avevano alcun legame con l’attività economica e produttiva. È tutto ciò che va radicalmente cambiato: va affermata una responsabilità sociale dell’impresa. Questo vuole dire guardare alla sostenibilità sociale e ambientale di ciò che si produce, di come si redistribuisce la produttività, di come si ricostruisce un rapporto con il territorio. A tutto ciò sono chiamati a dare un contributo figure apicali e management dell’impresa, uscendo forse dal perimetro ben conosciuto e collaudato del loro sapere specialistico, andando oltre le semplici soluzioni “ragionieristiche” e trovando il coraggio di adottare un nuovo modo di pensare, agire e affrontare i problemi.


Proprio recentemente Maurizio Landini ha lanciato in un’intervista l’idea di creare un’alleanza con governo e imprese per evitare che il Paese si sbricioli.

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