Risolleviamo i NEET

Come aiutare i giovani di oggi che non studiano e non lavorano a riattivarsi e cosa fare perché non ce ne siano più in futuro?

Chi sono i giovani? Cosa vogliamo che siano le nuove generazioni? In tutti i paesi odierni e in tutte le epoche storiche la prosperità è strettamente legata alla capacità delle nuove generazioni di produrre nuovo benessere, vale a dire nuova ricchezza economica e nuovo valore sociale. Perché in Italia ci riusciamo molto meno rispetto alle società moderne avanzate? Il riscontro di tale incapacità è sintetizzato dal tasso di neet, indicatore che ben rappresenta lo scarso investimento sui giovani con conseguente spreco delle loro competenze e frustrazione delle loro ambizioni.

Giovani scoraggiati
L’acronimo neet sta per “not in education, employment or training” e indica gli under 30 che non stanno né studiando né lavorando. A differenza del tasso di disoccupazione giovanile, tale indicatore prende in considerazione non solo chi cerca attivamente lavoro ma anche chi non ci crede più perché scoraggiato. È quindi la misura più adeguata per esprimere lo spreco e il sottoutilizzo del potenziale giovanile con conseguente deterioramento di occupabilità e produttività futura. I giovani che si trovano in tale condizione, secondo i dati più recenti, sono circa 2,4 milioni: l’equivalente degli abitanti di una regione italiana di media grandezza. Nessun altro paese in Europa ne ha in valore assoluto così tanti. In termini relativi sono il 26% di chi ha tra i 15 e i 29 anni, ma il dato era già elevato prima della crisi (19%). Come documentano varie ricerche, le ricadute negative sono di vario tipo: minori entrate fiscali, costi maggiori per prestazioni sociali, malessere sociale. Il costo sociale, stimato dall’Eurofound, è pari all’1,2% del pil europeo, si sale a valori attorno al 2% in Italia. Ci sono poi però anche costi individuali, sia materiali che psicologici, di difficile quantificazione.

Italia maglia nera
Cosa ci ha fatto diventare i più bravi a trasformare i giovani da potenziale risorsa per la crescita a costo sociale? Il motivo di fondo è che negli ultimi decenni si è creata una profonda discrasia tra giovani e lavoro ma, ancor più in generale, tra nuove generazioni e sistema paese. Da un lato, quello che serve alle nuove generazioni per essere adeguatamente formate, valorizzate e dare il meglio di sé non c’è, o quasi. Dall’altro, il paese esprime scarsa domanda di giovani, li include poco e male nei processi decisionali e produttivi. Siamo quindi, in definitiva, diventati una delle economie avanzate meno in grado di mettere in sintonia le capacità e le competenze delle nuove generazioni con le trasformazioni e le opportunità del mercato del lavoro e della società. Negli ultimi anni il quadro è ulteriormente peggiorato a causa della prolungata congiuntura economica negativa in combinazione con la cronica carenza di strumenti a sostegno dell’autonomia e promozione dell’intraprendenza. Secondo i dati Eurostat siamo, in particolare, tra quelli che hanno investito meno negli ultimi decenni in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca e sviluppo. Questa scarsa lungimiranza, frutto di forti resistenze corporative e di una politica debole, la paghiamo ora in bassa crescita del Paese e alto costo sociale dei neet.

Un costo anche sociale
La condizione degli attuali under 30 (ma si può estendere anche agli under 35), come ben documentato dal “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo, assomiglia sempre di più a un labirinto dove alto è il rischio di girare a vuoto nonostante gli sforzi e la buona volontà. Nel frattempo si cresce e diventa sempre più difficile recuperare il tempo perduto. Ecco allora che ci si trova a rinviare progressivamente la realizzazione in ambito lavorativo, a posticipare la conquista di un’autonomia dai genitori, ad abbassare le aspettative sul reddito, sul numero dei figli, sulle condizioni di benessere economico, sociale e relazionale. I giovani italiani stanno maturando una forte frustrazione per il sottoutilizzo delle proprie potenzialità, misto a sfiducia nelle politiche per la carenza di risultati effettivi. Ma dopo averli fatti finire nella palude, non possiamo pretendere ora che dimostrino di saperne uscire da soli, magari facendo come il Barone di Münchhausen che uscì incolume dalle sabbie mobili tirandosi fortemente e con convinzione per i capelli.

Cosa fare allora?
Dobbiamo decidere se in Italia le nuove generazioni sono le principali vittime di un paese rassegnato al declino o se, invece, vogliamo che siano le risorse principali di un paese che vuole tornare a crescere e ad essere competitivo. Nel primo caso è bene che i giovani lo sappiano e possano decidere di abbandonare una nave che va alla deriva. Nel secondo dobbiamo destinare ai giovani le maggiori risorse e le migliori politiche per metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé in un Paese che dimostra con i fatti di credere in loro e nelle loro potenzialità.

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