Il lavoro e il mondo del lavoro sono da tempo in crisi in Italia. L’anno e mezzo di emergenza sanitaria, diventata presto anche economica, non ha fatto altro che aggravare una situazione già critica stressando aspetti già noti e presentandone alcuni del tutto sconosciuti.
I numeri
Gli ultimi dati rilasciati dall’Istat l’11 giugno scorso confermano la difficile situazione del mercato del lavoro italiano. Nel primo trimestre 2021 il numero degli occupati è calato di 243mila unità (-1,1%) rispetto al trimestre precedente, e di 889mila unità (-3,9%) rispetto allo stesso periodo del 2020.
I dati negativi rispetto al trimestre precedente si legano al calo dei dipendenti a tempo indeterminato (-1,1%) e degli indipendenti (-2,0%) non compensato dalla lieve crescita dei dipendenti a termine (+0,6%). Considerando secondo la nuova metodologia adottata non occupate le persone in cassa integrazione da almeno tre mesi, si registra un aumento di 103mila disoccupati sul trimestre precedente e di 240mila sul primo trimestre 2020. A perdere più posizioni sono il Nord, i giovani sotto 35 anni, gli stranieri e i meno scolarizzati, quasi paritario il calo per genere. E i nostri tassi di occupazione sono ben lontani da quelli dei paesi più avanzati e dagli obiettivi che da troppi anni manchiamo clamorosamente.
Il tasso di disoccupazione del primo trimestre 2021 sale quindi al 10,7% con un aumento di 1,2 punti percentuali sul primo trimestre del 2020. Nel confronto sull’anno, la diminuzione degli occupati coinvolge i dipendenti (-576mila, -3,2%), soprattutto se a termine, e gli indipendenti (-313mila, -6,0). L’Istat segnala poi come nel primo trimestre 2021 le ore lavorate registrino una diminuzione di -0,2%rispetto al trimestre precedente e di -0,1% rispetto al primo trimestre 2020, mentre il Pil è aumentato dello 0,1 in termini congiunturali e diminuito dello 0,8 in termini tendenziali.
Una situazione che è stata governata nel periodo pandemico sostenendo giustamente imprese e lavoratori, ma di fatto bloccando ancor più il mercato del lavoro.
Alla vigilia dello sblocco del blocco dei licenziamenti, è chiaro a tutti che non si potranno abbandonare a loro stessi i lavoratori che potrebbero pagare più duramente la situazione che si creerà, ma questo non basta per creare prospettive valide per loro e per il Paese.
Tra le più forti contraddizioni c’è quella di un sistema che manca di politiche attive per accompagnare i lavoratori anche con formazione e reskilling verso nuove professionalità e lavori. Assurdo peraltro constatare che, anche durante la pandemia, nelle doverose situazioni nelle quali abbiamo utilizzato la cassa integrazione abbiamo perso l’occasione di fare formazione a chi era inoperoso o quasi.
Tanti sono i nodi che stanno venendo al pettine, oggi in modo ancor più vistoso. Parliamo da anni di formazione continua, ma continuiamo a farne poca, troppo poca. Siamo consci del mismatching tra formazione scolastica e mondo del lavoro, ma abbiamo fatto poco o niente. Siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di laureati tra i giovani, ma anche quei pochi faticano a trovare validi sbocchi in un mercato che non ricerca e riconosce poco il merito e le competenze, in un sistema economico più volto a competere sul costo del lavoro che sul valore aggiunto prodotto. Tuteliamo il posto di lavoro e delle aziende, senza tutelare come dovremmo professionalità dei lavoratori e competitività del sistema.
È quindi indubbio che dobbiamo cambiare il mondo del lavoro e il lavoro. Serve però anche crescere e capire come e dove farlo per non continuare a stare in quei circoli viziosi ben sottolineati dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle Considerazioni finali del 31 maggio scorso.
“Anche se l’Italia può contare su un segmento in crescita di imprese dinamiche e innovative – cui si deve il recupero di competitività sui mercati internazionali nell’ultimo decennio e un contributo importante al ritorno in attivo, dopo 30 anni, della nostra posizione netta sull’estero – persistono gli elementi di fragilità del tessuto produttivo. Il numero di microimprese con livelli di produttività modesti rimane estremamente elevato, mentre è ridotta la presenza di aziende medio-grandi, che pure hanno un’efficienza comparabile a quella delle maggiori economie a noi vicine. Nei servizi non finanziari le imprese con meno di 10 dipendenti impiegano quasi il 50 per cento degli addetti, il doppio che in Francia e Germania.
La specializzazione in attività tradizionali e la piccola dimensione riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione. Nonostante i progressi stimolati anche dalle politiche economiche, la spesa privata in ricerca e sviluppo resta molto più bassa di quella di Francia e Germania, nonché della media dei paesi avanzati”.