La robotica, l’internet of things, la stampante 3D, i big data, il 5G nella telefonia mobile e gli straordinari progressi tecnologici della Fourth Industrial Revolution promettono di rivoluzionare le imprese. Di pari passo, le opportunità di accesso alla conoscenza e all’informazione aprono la strada a una potenziale abbondanza di talenti e a una nuova concezione dei modelli di gestione delle persone. A condizione che i manager assumano un mindset diverso. Nell’opinione tradizionale il talento è una qualità innata che un individuo possiede o meno già alla nascita, “chi ce l’ha ce l’ha, per gli altri, pazienza, non c’è niente da fare”. La dote naturale consentirebbe a pochi individui di talento e con alto potenziale di eccellere senza uno sforzo particolare nei campi più diversi, dall’impresa alla matematica, nel violino come in cucina. Secondo questa ipotesi aristocratica, i dotati si riconoscono già in età precoce e nella parte superiore stanno gli overgifted, i bambini prodigio in possesso di straordinarie capacità artistiche, fisiche, logiche e di calcolo. Il bambino prodigio per antonomasia è Mozart, che secondo la vulgata a 4 anni scriveva melodie straordinarie. Una visione semplicistica condivisa però da molti. Per fortuna le prove scientifiche mostrano che il talento non funziona in questo modo e confortano la nostra esperienza. Abbiamo faticato per acquisire la competenza e crescere nella carriera e nella responsabilità. Non è stata fortuna, abbiamo fatto le cose giuste nel momento giusto, abbiamo assorbito gli eventuali errori o fallimenti, abbiamo seguito con determinazione una strada, attenti a cambiarla al momento giusto.
Gli alibi per non emergere
Purtroppo la maggioranza delle persone trascura le evidenze e vive sprecando le capacità e opportunità, poche o molte che siano. Quando è necessario rendere conto a se stessi, alla famiglia o ad altri, adotta uno stile narrativo assolutorio. Cioè spiega la propria situazione insoddisfacente addebitandola all’incomprensione del mondo, alle invidie e alle ingiustizie. Come ultime giustificazioni (poco convincenti) rimangono la sfortuna e le condizioni avverse della vita. Verso la fine degli anni 90 una ricerca della McKinsey&Co, l’influente società di consulenza, indirizzò sul talento l’attenzione dei grandi manager, delle direzioni del personale, degli studiosi del capitale umano. Fu “una chiamata alle armi” per la corporation americana: la ricerca dello sviluppo del talento sarebbe stata la guerra per la sopravvivenza delle imprese! La tesi, divulgata in un libro di successo, The war for talent, suscitò nelle aziende una vera ossessione, lasciando sulla sua scia accanto a risultati positivi (la maggiore attenzione al capitale umano) anche conseguenze negative. Da allora molte aziende hanno adottato il concetto di gaussiana e di distribuzione forzata: pochi talenti da attirare e gestire con politiche differenziate, carriere veloci, remunerazione sopra mercato, status e attenzione; dall’altra, il resto dell’azienda: ritmi di crescita lenti e remunerazioni allineate alla media di mercato o magari più in basso. Come diceva il famoso Jack Welch, il 10% della popolazione andrebbe rivisto ogni anno perché probabilmente non ce la fa e i capi dovrebbero essere più esigenti.
Esperienza, sacrificio e performance
Al contrario, lo psicologo Howard Gardner dell’Università di Harvard sostiene che ognuno possiede una combinazione di intelligenze, lui ne ha identificate nove, e almeno una è spiccata, l’inclinazione della persona. All’analista di modelli matematici o al pianificatore servirà l’intelligenza logico-matematica, al manager quella interpersonale, in mondi organizzativi caratterizzati da alta connettività serviranno a tutti dosi sia pure diverse di intelligenza emotiva. Riconoscere l’inclinazione delle persone è la fase iniziale. Ma il manager capace sa che la valutazione, benché importante, è solo un passo diagnostico e la sua competenza distintiva, che difficilmente potrà essere soppiantata da algoritmi o robot, è proprio la gestione delle performance e il far crescere le persone. Il professor K. Anders Ericsson, uno psicologo americano, ha coniato l’espressione “pratica deliberata”: una persona tenace che si impegni per un arco temporale lungo dieci anni diverrà con alta probabilità un esperto in un campo particolare di attività realizzando performance superiori. La cosiddetta “teoria delle 10.000 ore” richiede l’impegno in attività strutturate, progettate in modo specifico, non consiste nel ripetere lo stesso esercizio/attività per lunghi periodi, come se un tennista praticasse solo la battuta o, peggio ancora, se ripetesse solo il lancio in aria della pallina. Scrive lo stesso Mozart a un amico: «La gente sbaglia quando pensa che la mia arte venga facilmente. Ti assicuro, mio caro, che nessuno ha mai dedicato così tanto tempo e pensiero alla composizione come me. Non vi è nessun maestro la cui musica non abbia operosamente studiato molte volte». Anche per i grandi artisti la competenza si rivela come il frutto della fatica e dell’apprendimento.
Guarda l’intervista a Sandro Catani, autore del libro Il segreto del talento – Istruzioni per l’uso