Manager & Workers Buyout: la parola a Bibi Bellini

Bibi Bellini racconta cosa vuol dire fare il manager in una cooperativa e in cosa si differenzia questa attività rispetto a quella analoga che si può svolgere in una normale impresa for profit

Il 7 febbraio parte l’iniziativa di XLabor in collaborazione con Legacoop Produzione e Servizi e il patrocinio della Regione Emilia-Romagna: quattro incontri, fruibili in presenza o da remoto, incentrati su come fare il manager nei casi di Workers Buyout.

Per l’occasione, abbiamo fatto quattro chiacchiere con i protagonisti dell’iniziativa: ci hanno raccontato come è nato il progetto Manager & Workers Buyout e cosa aspettarci dai quattro approfondimenti.

Lasciamo ora la parola a Bibi Bellini, Open Innovation Manager Fondazione Barberini, che ci illustra cosa vuol dire fare il manager in una cooperativa e in cosa si differenzia questa attività rispetto a quella analoga che si può svolgere in una normale impresa for profit.

Valore condiviso

Mentre per le imprese for profit l’obiettivo o, se vogliamo, il fine principale è il profitto, ovvero, per semplificare, i margini operativi derivanti dalla differenze tra entrate e costi di produzione, per una cooperativa – che pure deve fare profitti per reggere la competizione, consolidarsi patrimonialmente e innovare – il profitto è un mezzo per generare nuovo valore, ma anche per ridistribuirlo oltre il perimetro degli azionisti, per estenderlo ai suoi principali stakeholder che sono i soci, i lavoratori, i fornitori, i clienti e finanche la comunità di riferimento.

Tra i sette principi stabiliti dall’Alleanza internazionale delle Cooperative (ICA) che definiscono l’identità cooperativa e che ne indirizzano l’attività, c’è infatti il settimo, che promuove l’interesse verso la comunità attraverso politiche approvate dai loro membri e volte a favorire lo sviluppo sostenibile delle comunità nelle quali si trovano a operare. Una sostenibilità che non si limita agli aspetti economici, ma che investe anche quelli sociali, ambientali e di governance democratica.

Su quest’ultimo aspetto è bene richiamare una caratteristica fondante di ogni cooperativa la cui proprietà è espressa dai soci che hanno identico peso deliberativo e che si esprimono attraverso il voto capitario (una testa, un voto).

Per chi proviene da una cultura aziendale di tipo profit questa accezione di “valore condiviso” probabilmente richiamerà alla mente il celebre articolo uscito nel 2011 sulla Harvard Business Review a cura di M. Porter e M. Kramer (Creating shared value, 2011), dove i due autori per la prima volta coniarono l’espressione di “valore condiviso”, offrendo al mondo delle imprese profit un nuovo paradigma e una prospettiva di sostenibilità a essa sconosciuta, essendo la loro mission perlopiù impostata sulla remunerazione degli azionisti (shareholder).

Nel tempo, quindi, le differenze tra impresa profit e non profit oriented (anche se sarebbe opportuno definire le cooperative imprese low-profit, per non assimilarle al vasto mondo delle organizzazioni non profit) si sono assottigliate, ma rimangono alcune differenze sostanziali e dirimenti che fanno dell’impresa cooperativa un dispositivo economico e anche sociale di impianto non capitalistico. Per tre ragioni principali.

Contro le disuguaglianze

La prima è quella vista poco sopra e relativa alla ridistribuzione più vasta rispetto al perimetro dei soli azionisti ovvero del capitale investito: è la classica differenza tra shareholders value e stakeholders value.

Per questa propensione possiamo dire, in via generale, che la cooperazione accresce la prosperità diffusa dei territori in cui opera e quindi contribuisce a ridurre le disuguaglianze. In una cooperativa, infatti, esistono limiti (sanciti per legge) alla remunerazione del capitale apportato dai soci e alla divisione degli utili, a beneficio dell’accumulazione di capitale dentro alla cooperativa funzionale alla realizzazione dello scopo mutualistico per la quale la cooperativa è stata creata e al rafforzamento della propria capacità di generare valore condiviso nel tempo.

Nelle cooperative i soci lavoratori possono avvalersi del dispositivo del “ristorno”, consentendo una parziale ridistribuzione ai soci del profitto realizzato dalla cooperativa, in proporzione al valore degli scambi mutualistici che i soci hanno intrattenuto con la cooperativa nel corso dell’esercizio. Una ridistribuzione che può assumere, ad esempio, la forma di integrazione della retribuzione per i lavoratori (nelle cooperative di produzione e lavoro, dove i lavoratori contribuiscono sia col capitale che col lavoro) o di restituzione di parte del prezzo corrisposto per l’acquisto dei beni (nelle cooperative di consumo).

Mutualismo = Reciprocità

La seconda ragione di distintività della forma cooperativa sta proprio nel concetto di mutualismo, che vuol dire reciprocità. Non semplice do ut des, regolato per contratto o per legge, ma scambio reale e simbolico sia verticale (tra cooperativa e soci) che orizzontale (tra i soci e tra i lavoratori), che travalica il bene acquistato o il servizio reso, proiettando la sua importanza oltre i criteri di valore tipici dello scambio mercantile e contribuendo a generare legame sociale e fiducia.

È infatti la fiducia il gene primario di ogni scambio mutualistico che non è fondato su una regola contrattuale o su una legge, ma sulla libera scelta in una sorta di circuito virtuoso tra dare, ricevere e ricambiare analogo a quello del dono.

In questo senso il mutualismo è una sorta di cellula staminale (intesa come primitiva) della cooperazione prima di specializzarsi e diventare cooperazione sociale, di produzione e lavoro, di consumo, agricola, di trasporto, di credito ecc. Il risultato è una sorta di “transgender economico” che da oltre 150 anni concilia la produzione di valore economico e quella di capitale sociale e che differenzia radicalmente la cooperazione dallo scambio puramente mercantile in quanto innerva i meccanismi ridistributivi in quelli produttivi.

Un altro assetto proprietario

La terza ragione di distintività della cooperazione è nell’assetto proprietario. La cooperativa appartiene ai soci che, sovente, in quell’impresa investono sia il capitale che il lavoro per cercare di migliorare le proprie condizioni e rispondere a un bisogno diffuso, aggregando in questo modo la domanda evidente di alcuni beni o servizi.

In questo senso la cooperazione (sancita dall’art. 45 della nostra Costituzione) contribuisce a realizzare anche altri principi costituzionali, come, ad esempio, la possibilità per i lavoratori di partecipare «all’organizzazione economica del Paese» (art. 3) o anche il riconoscimento del “diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende” (art. 46).

Riconducibile all’assetto proprietario è anche il tema dell’intergenerazionalità dell’impresa cooperativa. Le cooperative sono il contrario delle startup, vocate (quando va bene) a exit milionarie. Al contrario, le cooperative sono delle “asset company” destinate a durare nel tempo, anche oltre la compagine sociale dei fondatori, per trasferire quel “bene comune” alle future generazioni, che potranno avvalersi di “fondi indivisibili” accantonati nel tempo dai cooperatori precedenti, in una sorta di mutualismo intergenerazionale oggi più che mai all’altezza dei tempi.

Interdipendenza

Se volessimo sintetizzare in una parola chiave il principale aspetto che un manager cooperativo dovrebbe tenere in debito conto nella sua azione quotidiana, è l’interdipendenza.

Consapevolezza dell’interdipendenza intesa non solo come mutuo appoggio, per dirla con libro di Pëtr A. Kropotkin, ma anche come senso del limite necessario a “relativizzare” la propria visione personale per contemperare gli aspetti salienti dell’agire in cooperativa (economico, sociale, ambientale e di governance in primis); per costruire leadership coerenti con la mission aziendale; per favorire identità responsabili nel senso etimologico del termine: capacità di offrire risposte, possibilmente multistakeholder. Consapevolezza dell’interdipendenza per bilanciare capacità di prendere decisioni e capacità di ascoltare, execution e controspinte derivanti da pensieri diversi, cercando sempre nuovi equilibri all’insegna dell’empatia, tra esigenze della proprietà e piena operatività della tecnostruttura.

Tutto questo affinché la natura prestazionale del manager possa produrre, nel rispetto delle differenti funzioni e mansioni, anche valore aggiunto relazionale, indispensabile in un contesto che si alimenta dalle interazioni tra pari (la persona al centro). In fin dei conti, con l’intenzione di produrre senso, inteso nella doppia accezione di significato e di direzione comune verso cui tendere.

A partire da questa complessità sommariamente riassunta, e fermo restando le caratteristiche base del manager di qualità, «il manager cooperativo deve essere ancora più bravo degli altri», sostiene Alessandro Messina nel suo recente libro Manager cooperativi, edito da Altreconomia. Un’indicazione pienamente condivisibile che, anziché mettere “pressione” a chi volesse cimentarsi con questa sfida, offre l’occasione per sperimentare, oltre il necessario bagaglio di competenze manageriali, anche nuove traiettorie gestionali all’insegna della sperimentazione e dell’innovazione, che il modello cooperativo può favorire in questo periodo storico di grandi trasformazioni.

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