Smart working e divieto di geolocalizzazione

L’autorità Garante della privacy dice no alla possibilità di geolocalizzare i dipendenti che lavorano in modalità agile.
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In precedenti articoli nel nostro focus abbiamo esaminato lo Smart Working, relativamente alle tematiche del diritto alla disconnessione e dei controlli a distanza dei lavoratori.

L’espansione del lavoro agile ha sollevato una questione sempre più discussa: l’uso della geolocalizzazione per monitorare i dipendenti che lavorano in modalità smart. In particolare, molti datori di lavoro si chiedono se sia legittimo utilizzare applicazioni aziendali per tracciare la posizione dei lavoratori durante le fasce di reperibilità.

Secondo l’orientamento consolidato dell’Autorità Garante per la Privacy, recentemente confermato nel provvedimento sanzionatorio n. 135 del 13 marzo 2025, la geolocalizzazione dei dipendenti in smart working, tramite app o software installati su dispositivi aziendali in dotazione non è ammessa se finalizzata al controllo del luogo in cui viene svolta la prestazione lavorativa. Un simile utilizzo rappresenta una violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970), in quanto costituisce un controllo a distanza non giustificato. L’utilizzo di strumenti elettronici per monitorare l’attività lavorativa è permesso solo per specifici motivi, come la sicurezza aziendale o la tutela del patrimonio. La verifica della corrispondenza del luogo di lavoro con quanto previsto nell’accordo di smart working non rientra tra i fini consentiti.

Oltre alle implicazioni lavoristiche, l’uso della geolocalizzazione solleva gravi problemi di privacy. La raccolta dei dati sulla posizione tramite dispositivi aziendali, senza una base giuridica adeguata, violerebbe i principi di liceità, correttezza e trasparenza nel trattamento dei dati personali contenuti nel GDPR (Regolamento UE 2016/679).

Neppure la presenza di un accordo sindacale può giustificare l’utilizzo di applicazioni di geolocalizzazione, poiché tali strumenti implicano un controllo diretto sull’attività lavorativa, in contrasto con il principio di limitazione delle finalità previsto dalla normativa europea. Anche il consenso esplicito dei dipendenti non sarebbe sufficiente a rendere lecito il trattamento dei dati, non rappresentando una base giuridica valida.

Infine, applicare la geolocalizzazione esclusivamente a chi lavora all’esterno dei locali aziendali creerebbe una disparità di trattamento rispetto ai colleghi in presenza, contrastando con l’obiettivo dello smart working di favorire maggiore autonomia e un miglior equilibrio tra sfera personale e professionale.

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