Una ricerca di Moody’s dell’aprile 2019 si preoccupava di tratteggiare le conseguenze sull’economia italiana di quello che si candida a diventare il Paese più vecchio del mondo. Al di là delle abituali, drammatiche ricadute sui conti pubblici, l’agenzia di rating ha provato a immaginare anche i riflessi più visibili sulla società. “Alcuni comparti aziendali italiani, come trasporti, ristoranti, abbigliamento e calzature, soffriranno perché gli anziani spendono meno in queste cose”, spiega Ernesto Bisagno, VP Senior Credit Officer di Moody’s. “Tuttavia, le aziende del settore alimentare, assistenza medica e assistenza domiciliare potrebbero effettivamente beneficiare”.
Il dato demografico relativo a una popolazione di ottantenni, novantenni, centenni – per di più italiani e quindi favoriti da un tasso di progressiva longevità in buona salute già oggi tra i più alti al mondo – è da tradursi in business.
La capacità di spesa dei consumatori over 60 raggiungerà 15 trilioni di dollari alla fine di questa decade, 8 trilioni in più del 2010, eppure gli euro di marketing dedicati a fare campagne verso la porzione over 50 della popolazione sono inferiori al 10 percento.
I patrimoni degli over 50
Come è possibile non notare che negli Stati Uniti la popolazione over 50 controlla l’83 per cento della ricchezza familiare americana (60 trilioni di dollari) e genera 7,6 trilioni di dollari di attività economica ogni anno? E come è possibile non fare caso che in Italia i due terzi dei patrimoni superiori ai 200.000 euro sono in mano alla fascia over 55. Come è possibile non notare che entro il 2032 la spesa al consumo a partire dai 50 anni aumenterà del 58 per cento (arrivando a 4,6 trilioni di dollari), rispetto al solo 13 per cento di aumento della spesa per le persone di età compresa tra i 25 e i 50 anni? O non verificare che, se aumentassero il numero di lavoratori anziani e quindi la loro aggiunta produttiva e i loro investimenti, il PIL (degli Stati Uniti) potrebbe crescere di 442 miliardi di dollari entro il 2020?
Gli older hanno voglia di vivere (e spendere)
Stiamo parlando di una categoria demografica che non ha solo bisogno di sanità o sicurezza, ma desidera divertirsi, consumare, apparire, viaggiare. In altre parole, vivere. Oggi meno del 15 per cento delle aziende ha messo a fuoco delle strategie di business per quella fascia d’età più alta che continuiamo a identificare come una massa bisognosa di qualcosa anziché desiderosa di qualcosa. Solo il 35 per cento delle persone over 75 si considera “vecchia” e se non ti senti vecchio non compri un prodotto per vecchi. E allora perché, ostinatamente, continuiamo a vendergliene? Telefoni dai tasti enormi che gridano dal loro design “io sono un vecchio sfigato” o pendagli da chiamata d’emergenza da appendere al collo che nessuno mai userà davvero visto che solo il 14 per cento degli utenti lo indossa quando servirebbe davvero: sempre.
Probabilmente la più grande industria di tutte con la quale dovremo confrontarci nel prossimo futuro, al di là della farmacologia, è quella delle crociere. Nel 2019 questa particolare industria del turismo ha già registrato un record storico: verranno consegnate 24 nuove navi, di cui due in Italia, cifra storicamente mai raggiunta finora nel corso di un solo anno. E a quanto pare questo è solo l’inizio: 106 navi sono in arrivo entro il 2027 quando si stima che i passeggeri passeranno dagli attuali 27 milioni al numero atteso di 39 milioni.
Le spese per le attività del tempo libero sono chiaramente superiori a quelle di altre fasce d’età. Le famiglie americane con a capo un 65enne hanno speso circa 40,6 miliardi di dollari in viaggi nel 2014, con un incremento di quasi il 35 per cento rispetto al 2010, anche se il numero di queste famiglie è aumentato solo del 19 per cento rispetto allo stesso periodo.
L’età della pensione può attendere
Dunque, dove risiederebbe una vergogna nel continuare a lavorare quando si avranno 100 o 200 anni? Se ci si sentirà bene a sufficienza perché dovremmo essere parcheggiati e in attesa di cosa poi? Se vivremo fino a 100 anni e volessimo andare in pensione con il 50 per cento del nostro reddito, come fa ancora oggi la maggior parte delle persone, già oggi sarà necessario lavorare fino a 79-82 anni. Appare chiaro dunque che l’idea di spingere le persone fuori dal lavoro a 60 anni è già completamente anacronistica. Come dice Lynda Gratton, “i nostri regimi pensionistici tendono ad assomigliare sempre più a uno schema Ponzi”, dove l’ultimo rimane con un nulla in mano e quell’ultimo sono gli stessi che il marketing continua a corteggiare pur sapendo che rimarranno con un nulla in mano. Che cosa hanno in mente di fare le imprese? Sembrerebbe incassare quel poco che c’è prima che sia troppo tardi.
E se la nostra longevità permettesse davvero di immaginare un sistema basato sul cambiamento anziché la staticità del lavoro? Perché non essere un ingegnere e poi un gommista, un medico e uno scalatore, un pilota di sottomarini nucleari e un pasticciere? E se lavorassimo e producessimo e poi imparassimo a essere altro?
In posti dove il PIL cresce, la disoccupazione scende, la scelta del mercato si amplia e quindi le paghe dei fast food non sono tanto più appetibili, un’azienda come Honey Baked Ham si sta preparando a reclutare 12.000 anziani per i propri 400 ristoranti.
Giovani e senior: nessun conflitto
Il dubbio che continuare a lavorare in “tarda età” possa frenare l’ingresso nel mondo del lavoro delle generazioni più giovani è stato confutato da numerosi studi che hanno dimostrato nero su bianco, anzi, come tassi più elevati di occupazione tra gli adulti più anziani siano positivamente correlati all’aumento dell’occupazione dei lavoratori più giovani.
Per la prima volta in 57 anni, secondo un nuovo rapporto di United Income, il tasso di partecipazione alla forza lavoro dei lavoratori in età pensionabile ha raggiunto il 20 percento. A partire dal mese di febbraio 2019, le classifiche delle persone di 65 anni o più che lavorano o cercano lavoro retribuito sono raddoppiate rispetto al minimo del 10 per cento dei primi mesi del 1985. Il più grande picco di occupazione è andato a lavoratori più anziani con un’istruzione universitaria: la percentuale di tutti i dipendenti di 65 anni o più anziani con almeno un diploma di laurea è ora del 53 per cento, rispetto al 25 percento del 1985.
La vita è larga e lunga. C’è tempo per essere quello che avremmo voluto e forse non sapevamo nemmeno di volere. Tra più di 1,5 milioni di imprenditori in tutto il mondo tra i 18 e gli 80 anni, le persone di età compresa tra i 50 e gli 80 anni hanno maggiori probabilità di essere lavoratori autonomi rispetto alle loro controparti più giovani. Un’impresa su tre negli Stati Uniti è stata avviata da qualcuno di 50 o più anni. Se solo il 28 per cento delle startup create dai giovani durano più di tre anni, per quelle create da persone over 60 il tasso di successo è del 70 per cento. Essere in grado di lavorare, essere liberi di lavorare, poter – fisicamente e psicologicamente – lavorare significa poter produrre reddito, significa non gravare sulle pensioni e quindi sui giovani per dover finanziare i più vecchi, e lasciare gli Stati tornare a fare gli Stati anziché giocare a fare le assicurazioni.
Testo tratto dal libro Immortali, di Nicola Palmarini (EGEA).