Pensioni, la scure della mancata rivalutazione

Il nuovo studio realizzato da Itinerari Previdenziali in collaborazione con Cida denuncia una svalutazione strutturale delle pensioni sopra una certa soglia, che danneggia, ancora una volta, in particolare il ceto medio. Una lunga storia di tagli trasversali e continui, che colpisce proprio quegli 1,8 milioni di pensionati che hanno versato più tasse e contributi, minando la fiducia nel patto generazionale
svalutazione delle pensioni

La Legge di Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026, complice l’elevata fiammata inflazionistica del biennio 2023 2024, ha penalizzato come mai prima d’ora i pensionati con trattamenti sopra i 2.500 euro lordi (meno di 2.000 euro netti).

Il centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali rileva che la perdita legata alla mancata rivalutazione sarebbe quantificabile nei prossimi 10 anni in almeno 13mila euro; valore destinato a salire progressivamente fino ai 115mila euro per i percettori di assegni oltre i 10mila euro lordi (6.000 circa netti, vedi tabella a pagina 34).

Si tratta di un provvedimento che colpisce chi ha maggiormente contribuito al sistema, sollevando possibili questioni di costituzionalità per le pensioni calcolate con metodo contributivo, che prevedono piena rivalutazione.

Un sistema che punisce chi ha dato di più

«In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto: una pensione da 10mila euro lordi al mese ha visto svanire quasi 180mila euro, l’equivalente di un anno intero di assegno.

È il simbolo di un sistema che punisce chi ha dato di più, mortifica i contribuenti più fedeli e incrina il legame di responsabilità tra generazioni», ha commentato Stefano Cuzzilla, presidente di Cida, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “La svalutazione delle pensioni in Italia”, che si è svolta il 17 settembre a Roma.

Si tratta di uno studio che analizza gli effetti sulle rendite dei meccanismi di rivalutazione delle pensioni applicati negli ultimi trent’anni, concentrandosi soprattutto sulle novità introdotte dalle più recenti manovre finanziarie.

Pensioni: un salario differito, frutto del lavoro e delle tasse pagate

«Le pensioni non sono un privilegio, ma salario differito, il frutto di una vita di lavoro e tasse pagate. Sono anche il più grande patto intergenerazionale che un paese possa stipulare: chi lavora oggi sostiene chi ha lavorato ieri, nella certezza che domani il proprio impegno sarà riconosciuto» ribadisce Cuzzilla.

L’inflazione colpisce i pensionati

«Rispetto alle persone in età attiva, i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione, tanto che il mantenimento del loro potere d’acquisto è affidato quasi esclusivamente ai meccanismi di indicizzazione: ecco perché sarebbe innanzitutto importante avere regole stabili nel tempo e, ancora di più, eque», ha spiegato Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali e curatore dello studio.

Perequazione: una leva contabile?

Negli ultimi anni, i tagli e i contributi di solidarietà hanno determinato perdite fino al 10-12% in un decennio, trasformando la perequazione in una leva contabile più che in uno strumento di giustizia previdenziale. Per le pensioni calcolate con metodo contributivo, il rallentamento della rivalutazione equivale a un’imposta indiretta: il pensionato riceve meno di quanto gli spetterebbe e di quanto necessario per contrastare l’inflazione.

I numeri delle svalutazioni più recenti

Con il 2022, il quadro sembrava in realtà essersi fatto più favorevole. Scaduta nel dicembre 2021 la disciplina transitoria introdotta dalla legge 147/2013 (più volte rinnovata), è stato infatti ripristinato lo schema originariamente stabilito dalla normativa del 1996, che prevedeva una rivalutazione a scaglioni al 100% dell’inflazione per la quota di pensione di importo fino a 4 volte il trattamento minimo (TM) Inps (per il 2022 pari a circa 525 euro al mese); al 90% dell’inflazione per l’importo compreso tra 4 e 5 volte il TM; al 75% dell’inflazione oltre 5 volte il TM.

Con l’occasione della successiva manovra finanziaria, il governo è però intervenuto sul biennio 2023-2024, prevedendo un meccanismo che, se da un lato rivalutava pienamente le pensioni sociali, gli assegni sociali e le pensioni al minimo (prevedendone addirittura un ulteriore incremento straordinario dell’1,5%, elevato al 6,4% per i pensionati di età pari o superiore ai 75 anni, per il 2023, e del 2,7% per il 2024), dall’altro peggiorava lo schema di rivalutazione delle prestazioni oltre 5 volte il TM.

Nel dettaglio, le percentuali di rivalutazione previste sono state: del 100% per i beneficiari di prestazioni fino a 4 volte il TM, incrementato appunto di un punto e mezzo percentuale in più rispetto all’inflazione effettiva; dell’85% per le pensioni da 4 a 5 volte il TM; del 53% per gli assegni tra le 5 e le 6 volte il TM, al 47% tra le 6 e le 8 volte, al 37% tra le 8 e le 10 volte e al 32% per gli importi superiori. Valore, quest’ultimo, ulteriormente ridotto al 22% per l’anno successivo, quando le modifiche alla perequazione hanno in effetti riguardato i soli percettori di assegno superiore le 10 volte il TM.

«Cosa ancora più grave – puntualizza Brambilla – è che la perequazione sfavorevole è stata applicata sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni: giusto per fare un esempio riferito al 2023, un pensionato con una rendita pari tra 2.627 e 3.152 euro si è visto rivalutata l’intera pensione al 4,3% (a fronte di un tasso di inflazione definitivo dell’8,1%), e non la sola quota eccedente le 5 volte il trattamento minimo».

Solo per il 2025, di pari passo con l’attenuazione dell’impennata inflattiva, si è di fatto tornati all’applicazione a scaglioni su uno schema a 3 fasce: il tasso di inflazione provvisorio dello 0,8% sarà applicato al 100% fino a 4 volte il trattamento minimo Inps, al 90% tra le 4 e le 5 volte e al 75% al di sopra delle 5 volte il TM dell’Istituto. Il che, tuttavia, non rimedia a quanto accaduto nel biennio precedente: come puntualizza la pubblicazione, non si tratta di una perdita circoscritta al 2023 e 2024, ma di una sottrazione di reddito pensionistico permanente nel tempo e destinata anzi a trascinarsi anche negli anni successivi.

Il grande paradosso: più paghi, più perdi

Considerate le mancate indicizzazioni patite dal 2012 al 2022, i trattamenti pensionistici oltre le 10 volte il minimo hanno perso, rispetto a un’inflazione tota le dell’11,6%, circa 9 punti percentuali. Svalutazione a cui si aggiunge quella del triennio 2023-2025, ancora più ingente per l’effetto combinato del boom dell’inflazione e dei meccanismi di perequazione introdotti dall’esecutivo attualmente in carica: in questo caso, le perdite ammontano a circa il 12% e, sommate alle precedenti, determinano una svalutazione delle pensioni di oltre il 21% nell’arco di 14 anni.

Volendo fare un esempio concreto, ciò significa che in questo periodo di tempo una pensione da 10.000 euro lordi (circa 6.000 netti) ha perso quasi 178mila euro, mentre una pensione da 5.500 euro lordi mensili (circa 3.400 euro netti) ha subito una perdita pari a circa 96mila euro. «Tenuto conto dell’effetto trascinamento, questo significa – aggiunge Brambilla – che i cosiddetti pensionati del “ceto” medio, oltre a sobbarcarsi il grosso dei 56 miliardi di Irpef in arrivo dalle pensioni, si vedranno ingiustamente sottratti altri 45 miliardi circa».

L’intervento della Corte costituzionale

La giurisprudenza ha spesso legittimato i tagli, ma la Corte costituzionale ha richiamato il legislatore a evitare riduzioni ripetute e sproporzionate. Sebbene la mancata rivalutazione sia considerata una misura discrezionale per sostenere le pensioni basse e ridurre il debito pubblico, utilizzarla come strumento contabile mina la certezza del diritto.

Come uscire dall’impasse

Per ricostruire fiducia e giustizia nel sistema, sono state indicate due mosse: una scelta politica chiara per garantire rivalutazioni stabili come negli altri paesi europei e una Corte capace di evidenziare le storture dei meccanismi previdenziali, tutelando chi ha lavorato, contribuito e pagato le tasse e ripristinando equilibrio tra generazioni.

Foto in alto: da sinistra, Stefano Cuzzilla, presidente Cida, e Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali e curatore dello studio.

perequazione pensioni

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