Riscaldamento globale: mezzo grado che conta

Lo scorso 6 ottobre è uscito un report speciale dell'Onu intitolato “Il riscaldamento globale di 1,5°C": il contenimento dell’aumento della temperatura media globale fino al 2100 è una sfida tutt’altro che banale per la società umana

È molto probabile che il 2018 si confermi l’anno più caldo che abbiamo avuto in Italia dal 1800, ossia degli ultimi 218 anni. I dati del Cnr rivelano che nei primi nove mesi di quest’anno in Italia si è registrata una temperatura media superiore di 1,5°C rispetto alla media del periodo 1971-2000: è un dato preoccupante? Quali sarebbero le potenziali conseguenze di un ulteriore aumento?

Lo scorso 6 ottobre è uscito un report speciale dell’Ipcc (Intergovernmental panel of climate change, l’organo dell’Onu che studia il cambiamento climatico) intitolato “Il riscaldamento globale di 1,5°C”, che spiega come il contenimento dell’aumento della temperatura media globale a 1,5°C da oggi al 2100 sia una sfida tutt’altro che banale per la società umana. Ricordiamo che l’accordo di Parigi sul clima del 2015 si è posto l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale entro fine secolo al di sotto dei 2°C per evitare gli impatti devastanti che i cambiamenti climatici potrebbero avere sul nostro Pianeta. Secondo gli scienziati dell’Ipcc gli attuali target nazionali di riduzione delle emissioni porterebbero ad un aumento della temperatura di almeno 2°C da qui al 2100, con notevoli conseguenze negative rispetto ad un aumento di soli 1,5°C.

Mezzo grado in più sembra nulla ma invece fa una bella differenza. il nuovo report Ipcc cne evidenzia i rischi e qui di seguito ne riportiamo i principali:

  • il livello dei mari si innalzerebbe di ulteriori 10cm, il che esporrebbe fino a 10mn di persone in più tra cui i cittadini della Florida e di New York all’erosione e inabitabilità delle zone costiere;
  • la probabilità che il Mar Glaciale Artico resti completamente senza ghiaccio nel periodo estivo potrebbe avvenire ogni 10 anni invece che ogni cento;
  • lo scioglimento del permafrost, in cui sono intrappolate trilioni di tonnellate di CO2 che verrebbero rilasciate nell’atmosfera, aumenterebbe di un’area equivalente alla superficie del Messico;
  • le barriere coralline si estinguerebbero quasi completamente rispetto ad una diminuzione di circa l’80% se contenessimo l’aumento a 1,5°C.

Che fare per limitare l’aumento delle temperature a soli 1,5°C da qui al 2100? Le emissioni di CO2 dovrebbero diminuire del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010 e dovrebbero azzerarsi entro il 2050. Non sembra una passeggiata.

Sarebbe possibile solo con un massiccio processo di elettrificazione della economia planetaria tale per cui al 2050 la quota di energia elettrica sul totale della produzione di energia dovrebbe raggiungere almeno il 40% rispetto al 16% di oggi. L’elettrificazione dovrebbe provenire principalmente dalle fonti rinnovabili che dovrebbero produrre fino all’80% dell’energia elettrica globale al 2050. Oggi ne producono circa il 25%, ma di questi il 16% è imputabile al grande idroelettrico, il cui mercato è sostanzialmente fermo, e solo il restante 9% è attribuibile alle rinnovabili in espansione, tra cui soprattutto il fotovoltaico e l’eolico. Questo significa che per contenere l’aumento della temperatura a 1,5°C la quota di rinnovabili, escludendo l’idroelettrico, sulla generazione elettrica dovrebbe passare dal 9% di oggi a circa il 64%, un amento di ben 55 punti percentuali!

Sembra praticamente impossibile.

Oltre al settore elettrico, bisognerebbe fare degli sforzi rilevanti anche nel settore dei trasporti: la quota dei consumi energetici a basse emissioni dovrebbe aumentare da meno del 5% di oggi al 35%-65% nel 2050. È vero che le vendite di auto elettriche stanno crescendo a un tasso annuo di oltre il 50%, ma rappresentano ancora solo lo 0,3% del parco auto globale. Per il trasporto aereo, Boeing e Airbus stanno investendo importanti risorse per lo sviluppo di aerei “full-electric”, ma il peso e lo spazio rilevante che occupano le batterie ne limita fortemente non solo la velocità, ma anche la capienza e quindi il numero di passeggeri trasportabili. Sembra quindi che nel breve periodo l’aviazione civile debba fare affidamento sui biocarburanti per ridurre le emissioni di CO2 e per fortuna si stanno facendo importanti progressi in tal senso. Sempre più compagnie, prima tra tutti Lufthansa, da qualche anno a questa parte stanno sperimentando veicoli alimentati da miscele di vari tipi di biocarburanti in grado di ridurre le emissioni di oltre il 50% rispetto a un veicolo standard.

Gli investimenti per compiere una transizione energetica di questa rilevanza sono decisamente importanti: bisognerebbe stanziare 900 mld di dollari all’anno nei prossimi 35 anni, il che complessivamente equivale ad una spesa pari ad 1/3 dell’attuale PIL mondiale. Se non si riuscisse ad attuare tale transizione, sarebbe necessario fare affidamento sui cosiddetti sistemi di CDR (carbon dioxide removal) per poter catturare e sequestrare enormi quantità di CO2 dall’atmosfera, ma queste tecnologie sono ancora poco consolidate e in fase sperimentale, e hanno dei costi di sviluppo proibitivi.

Il ritiro degli Stati Uniti, il secondo Paese per emissioni di CO2 al mondo, dall’Accordo di Parigi ha reso gli impegni per la lotta al cambiamento climatico ancora meno credibili e ha portato alcuni paesi come l’Australia a fare un passo indietro. La guerra commerciale in atto tra il presidente Trump e la Cina sta costringendo il primo emettitore al mondo di CO2 ad indebolire i suoi impegni ambientali che nel breve periodo limiterebbero la competitività dell’industria cinese.

Forse l’impegno più serio di un mondo che iniziasse a considerare seriamente i cambiamenti climatici sarebbe quello di capire in dettaglio le probabili conseguenze di un forte aumento della temperatura e a prendere misure severe per adattarsi alle nuove realtà future.

In questo quadro sconsolante l’unica nota positiva – si fa per dire – è che il nostro paese, spesso la pecora nera delle performance, si classifichi tra i primi posti in termini di riduzione delle emissioni di gas serra nel Vecchio Continente (Fig. 1) con un livello di emissioni pro capite inferiori del 20% rispetto alla media europea.

Si sa che l’Europa si è sempre distinta per le sue performance ambientali rispetto al resto del mondo. Ma questa volta lo sforzo richiesto appare davvero senza precedenti e in un’era dove gli scettici prendono più potere forse non resta che adattarci ad estati sempre più bollenti, ad alluvioni improvvise e a frequenti uragani che già fanno capolino nel cuore del Mediterraneo…

 

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