Quale futuro ci aspetta?

La pandemia ha condizionato la vita quotidiana di tutti noi e il futuro della nostra società appare sempre più incerto e denso di cambiamenti. Ma qual è il punto di vista di chi oggi ha vent'anni? Manageritalia ha raccolto le testimonianze di alcuni giovani ricercatori di NECSTLab, il laboratorio all'interno del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria (DEIB) presso il Politecnico di Milano, con cui collabora da anni. Tra timori, incertezze e speranze, uno sguardo al tempo presente per cogliere i prossimi scenari da parte di chi può, e deve, avere un ruolo da protagonista

Milano, sabato 2 maggio 2020 – 2 mesi dall’inizio della quarantena. 

Proprio come negli ultimi quattro o cinque giorni, mi alzo dal letto con un peso sullo stomaco. Che poi non era solo sullo stomaco, era più diffuso. Piombo che scorreva nelle vene. E non sapevo da cosa fosse originato. “Tutto ok?” “Sì, sì Fede”. Che poi, “Sì, sì” un cavolo, non so cosa cos’ho, non sto bene.

Quella mattinata feci scorrere fuori da me in maniera confusa quello che stava fluttuando disordinatamente nella mia testa da giorni. Finalmente, capii: era smarrimento. E io, a Milano, smarrita ormai non mi ci sentivo da un po’. Questa città che mi aveva fatto scoprire così tanto, degli altri, del mondo, di quanto sapere ero stata e sarei stata per sempre ignara. Soprattutto, mi aveva fatta dischiudere, da un bozzolo a una farfalla che occupa il suo spazio in un prato pieno zeppo di fiori di ogni tipo, anche se leggera, fragile e all’apparenza insignificante. Io a Milano mi sentivo ormai sicura. E quel disorientamento mi aveva totalmente stordita. Da un giorno all’altro, una pandemia stava, nemmeno troppo lentamente, sgretolando tutto: la mia routine universitaria non esisteva più, l’ecosistema di persone che alimentavano la mia vita erano tornate nei loro luoghi natali e non occupavano più le mie giornate, il futuro che avevo ipotizzato e che cercavo di costruire ogni giorno cancellato con un colpo di spugna. A condire questo, una sensazione di essere stata tradita, presa in giro. Da tutti.

Sono nata nella provincia di Verona e dopo aver concluso il liceo scientifico sono partita per Milano per frequentare il corso di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Avrei potuto optare per l’università di Padova, che erogava lo stesso corso di studi, ma anche su consiglio dei miei genitori che volevano aiutarmi a costruire gli strumenti migliori per poter creare un futuro di qualità, solido, aperto al mondo, la scelta è ricaduta su Milano.

Inizio il mio percorso universitario nella totale inconsapevolezza di cosa stessi facendo e del reale perché. Non ho mai saputo cosa volessi “fare da grande”, ogni scelta era emersa, agli occhi degli altri, in maniera naturale: “Te la cavi in matematica? Fai lo scientifico”. “Sei un’adolescente con la testa sulle spalle e con buoni voti? Beh, ingegneria gestionale a Milano è la scelta che ti apre più porte”. E con questo spirito, improvvisamente, mi sono trovata circondata da tantissimi ragazzi provenienti da tutte le parti d’Italia e del mondo, di cui la maggior parte erano sicuri di cosa volessero ottenere dagli sforzi che il Politecnico li portava a compiere. E non nascondo di essermi sentita un po’ sfigata.

Ogni volta che mi chiedessero quale fosse l’azienda dei miei sogni, a malapena riuscivo a elencare qualche nome, che riaffiorava alla mente senza un reale motivo. Mi sentivo perennemente un passo indietro, e questo mi ha portato a cercare di emulare quello che le persone a me vicine, che ammiravo, avevano deciso per il loro di futuro. Questa fatica non ha fatto altro che sovraccaricarmi in maniera latente, appesantendo il carico già grande che gli esami avevano sulle mie spalle, ma soprattutto sulla mia identità.

A cominciare a farmi alzare lo sguardo è stata un’associazione studentesca, che, manco a dirlo, ho scoperto per pura casualità. “Secondo me tu saresti proprio adatta a JEMP! Perché non provi a entrare??”. E così, senza sapere il vero motivo, entrai in un mondo di ragazzi intraprendenti, che cercavano, nel mettersi in gioco in prima persona, di scoprire i loro talenti. E io lì, per la prima volta dall’inizio del percorso accademico, cominciai a fare le cose non con uno scopo, ma seguendo la mia più profonda voglia di fare. Da li è iniziata la scoperta di me stessa. Definitivamente esplosa quando, grazie a quell’associazione, conobbi il NECSTLab, presso il quale lavoro da un anno. Questo laboratorio di ingegneria informatica è “solo” un luogo, un openspace all’interno del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico. Ma è la Casa di persone meravigliose, speciali e uniche, tra le quali non mi sono sentita sfigata perché non sapessi cosa volessi fare, anzi. Hanno preso quella piccola farfalla ancora troppo traballante e le hanno fatto capire che essere una farfalla non fosse l’unica opzione possibile e che non sapere che opzione scegliere fosse assolutamente inclusa in quelle opzioni.

Il risultato di tutto questo, della formazione accademica estremamente focalizzata al mondo delle grandi aziende e delle mie esperienze personali così variegate e a contatto con persone sempre diverse, con un forte slancio fuori dall’Italia, avevano costruito in me un’idea di futuro estremamente dinamica.

E io quel 2 maggio mi sono sentita tradita, presa in giro. Tutto quello per cui ero stata programmata pareva essere, ai miei occhi assuefatti da quel veleno piomboso, sparito in maniera definitiva. Ero costretta a rimanere praticamente ferma, senza i riferimenti della mia vita, familiari e non, ad alimentarmi, con nella testa un futuro non realizzabile e con degli strumenti in tasca che reputavo totalmente inappropriati ad affrontare la situazione nella quale mi trovavo.

Aver razionalizzato quella sensazione di smarrimento e aver identificato finalmente che la causa era classificabile come avvelenamento, mi ha come risvegliata da un letargo. La lucidità che avevo imparato ad applicare negli anni aveva ripreso vita e mi sono resa conto di quanto fosse assurdo ciò di cui mi ero convinta. Non tutto però. Le lezioni le seguivo online, le persone che facevano parte della mia vita erano fisicamente distanti da me, il futuro che avevo nella testa forse non era più realizzabile esattamente come lo avevo distrattamente immaginato. Ma che non avessi gli strumenti che avevo imparato a padroneggiare in 5 anni a Milano, grazie al Politecnico, era una grandissima cazzata. Non posso definirla diversamente. E quello di cui finalmente presi coscienza, è che quegli strumenti, non fossero oggetti isolati e indipendenti da me, ma fossi io, Carlotta, la persona che questi anni hanno silentemente rivelato. E da lì sono ripartita. O forse, partita davvero per la prima volta.
Per dove?
 
Non ne ho la minima idea.  

Sto per compiere 25 anni, ho finito gli esami di Ingegneria Gestionale, ho l’immensa fortuna, in un periodo di precarietà nelle assunzioni, di lavorare in un ambiente che sento essere quello al quale posso dare tutta me stessa. Questo è quello che so.

Non so se i progetti che sto portando avanti si concretizzeranno nella maniera in cui li ho ragionati e organizzati, non so se i miei affetti saranno sempre accanto a me quotidianamente, non so se tornerò a viaggiare agevolmente come prima, non so minimamente immaginare come possa evolvere la mia vita nei prossimi 5 anni (forse anche solo nel prossimo anno). Ma, anche se fosse possibile avere la risposta a tutti questi interrogativi, vorrei davvero saperlo? E, prima del diffondersi del Covid-19, avrei saputo rispondermi con completa certezza?

Faccio parte di quella generazione cresciuta con la parola “crisi” nelle orecchie così frequentemente da non provare ormai nemmeno più quel sentimento di angoscia che di default accompagna questo concetto. È innegabile che questo, col passare del tempo, stia assumendo connotazioni sempre più pervasive nelle nostre vite. Ma abbiamo, anche se solo dei rudimenti, lo spirito innato per gestire l’incertezza, lo custodiamo inconsciamente dentro di noi. Scovarlo e prenderne consapevolezza è tutt’altro che semplice, ma partire dall’approfondimento di noi stessi, facendo fruttare il tempo sospeso che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, sono convinta possa essere un punto di inizio importante.

Uno spreco evitabile è vivere il proprio presente arrovellandosi sul futuro: così facendo, ben presto, quel futuro diventerà il nostro presente e ci troveremo, ancora una volta, ad essere solo degli spettatori insoddisfatti di uno spettacolo, quello della nostra vita, al quale non prenderemo mai davvero parte. Quindi perché non concentrarsi sul presente? Perché non mettere un focus su ciò che possiamo controllare piuttosto che su quelle variabili difficilmente manipolabili? 

Sta a noi, solo a noi reagire al contesto in cui ci troviamo, perché noi siamo l’unica variabile, all’interno del sistema complesso in cui ci troviamo a vivere ogni giorno, che possiamo imparare a modellare e padroneggiare.

Comprendere profondamente tutto questo potrà avvenire grazie a dinamiche per ciascuno differenti. Per capirle però, sarà basilare, con pazienza e dedizione, tendere l’orecchio a se stessi, concedendoci finalmente un ballo sfrenato sulle note di quella strabiliante melodia.


Carlotta Marchesini, Business & Relationship Manager @NECSTLab – Politecnico di Milano.

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