Milano e la prima del Teatro alla Scala: un grande evento internazionale che punta i riflettori sul nostro paese. Cosa rappresenta oggi questo appuntamento tra glamour, cultura e musica?
La serata del 7 dicembre è vista come un evento mondano e sicuramente questo aspetto da almeno 50 anni è centrale. In realtà il vero senso della serata è che Alla Scala, all’apertura della stagione, si celebra una delle nostre ricchezze ed eccellenze, l’opera lirica, che è sicuramente una delle nostre manifestazioni artistiche più importanti e vitali nel mondo. Girando il mondo come direttore d’orchestra, una delle cose che noto e vedo è appunto quanto l’opera lirica è amata dai giovani e veramente in tutto il mondo. Ricordo una mia esperienza in Corea a dirigere la Lucia di Lammermoor in un teatro da tremila persone in cui l’età media era sui 20-22 anni. Un altro aspetto importante è che è trasversale, tocca tutti i pubblici di tutto il mondo. Se si facesse una ricerca potremmo notare che l’opera lirica è rappresentata dall’Australia fino all’Islanda e sempre in lingua italiana. Se la lingua italiana è una delle più studiate come seconda lingua è soprattutto perché molti ragazzi e ragazze e professionisti si occupano di opera lirica e lo fanno studiando la lingua nella quale l’opera è predominante.
L’opera è un genere dal fascino intramontabile: come è evoluta negli ultimi anni?
Il grande cambio epocale che risponde agli anni 50 con la famosa traviata della Callas di Visconti diretta da Giulini è un passaggio dall’opera lirica fondamentale. Prima vedevamo morire le Mimi, le Violette, le Traviate, le Bohème di tisi con delle soprano in sovrappeso. Questa assoluta non aderenza al realismo scenico era secondaria perché in qualche maniera veniva riempita dalle qualità vocali dei vari cantanti che venivano sul palcoscenico. Oggi questo non è più possibile, i registi hanno una centralità, la scelta del taglio registico e quindi visivo è fondamentale. In questo senso le produzioni più belle degli ultimi anni non si ricordano tanto per il singolo cantante, per il direttore d’orchestra, quanto piuttosto per dei grandi registi che hanno dato un taglio molto particolare, magari anche provocatorio, di certe opere che sono del nostro repertorio. Diciamo che questo a mio avviso è un po’ un peccato. Il discorso sarebbe molto più lungo, un passaggio epocale da una civiltà dell’ascolto a una civiltà della visione. Dovremmo recuperare la capacità di astrarre dall’aspetto puramente visivo.
Nel prossimo futuro secondo lei verso quale direzione andrà l’opera lirica?
Sostanzialmente i teatri cercheranno figure di giovani cantanti, dunque persone anche belle sul palcoscenico. Cantanti credibili e un taglio registico provocatorio e innovativo. Dovremmo recuperare l’opera come fenomeno di massa, attirando i ragazzini che non hanno mai visto una Traviata o una Bohème e quelli che la vogliono vedere nella forma più fedele possibile al dettato del compositore e del librettista.
L’opera è un classico storytelling: cosa può insegnare oggi ai manager e alle imprese che vogliono raccontarsi?
Sottolineo prima un aspetto produttivo. L’esempio che porto spesso è la coproduzione di un’opera lirica dove abbiamo veramente a che fare con una squadra enorme di persone, molto diversa dall’orchestra sinfonica. Il direttore che dirige un’orchestra sinfonica gestisce un’orchestra con anche 80, 90, 100 persone, ma è una struttura unica. Quando hai a che fare con l’opera hai a che fare con il coro, l’orchestra, i cantanti, il regista, lo scenografo, una multinazionale a servizio dell’arte e la complessità del direttore d’orchestra che in qualche maniera deve essere l’ultimo depositario della parola finale sulle scelte interpretative. Si tratta di un compito complesso che richiede capacità di delega e ascolto. Anche per chi non ha mai ascoltato un’opera leggersi il libretto e poi andare ad ascoltare come il compositore ha trasformato questo libretto in note aggiungendo sensibilità, guardando in profondità i personaggi, secondo me è una scuola inimitabile sulla natura umana. Richiede molto sforzo perché vedere delle persone cantare mentre muoiono o amano non è realistico. La vitalità è data dal fatto che lo sguardo che il compositore dà sul libretto e le parole è quella che rende l’opera assolutamente incredibile dal punto di vista della quantità di emozioni e anche della profondità della riflessione e della capacità di sviluppare sensibilità.
La storia di Attila cosa ci può dare in termini di leadership?
La scelta del maestro Riccardo Chailly, l’attuale direttore musicale del Teatro alla Scala, è stata molto interessante. È un’opera che lui ama particolarmente, la segue dall’inizio della sua carriera e sono felice che l’abbia riportata alla Scala perché è un’opera in cui di fatto abbiamo una contrapposizione tra poteri forti. Ci sono personaggi fondamentali maschili che si contrappongono, poi trovano una mediazione e quindi con una vocalità, due modi di esprimersi diversi. Lo sguardo su come Verdi rappresenta questo scontro tra poteri è estremamente istruttivo e crea una notevole capacità di discrimine in chi lo osserva. Quindi veramente un’educazione allo sguardo sulle relazioni tra le persone e relazioni di potere. Poi c’è l’amore, ma sostanzialmente è una contrapposizione tra poteri forti, tra Attila e Ezio.
Da addetto ai lavori, cosa dobbiamo aspettarci dalla rappresentazione di quest’anno del capolavoro di Verdi che inaugura la stagione della Scala?
Ho seguito la carriera e l’attività del maestro Chailly. So che darà una versione dell’opera sanguigna e forte con tagli netti come sua caratteristica, assecondata da un cast eccezionale. Si tratta di una produzione di altissimo livello che farà parlare di sé in tutto il mondo, non solo quello operistico.
Il direttore d’orchestra Daniele Agiman