Motivi e modelli per riproporre il servizio di leva in Italia

“Sveglia, giù dalle brande!!”. Così esordiva sbraitando, alle sei di ogni mattina che Dio metteva in terra, il sottufficiale di turno con la sigaretta in bocca, nello stanzone pieno d’umanità della caserma “G. Romagnoli” di Roma, dove ho trascorso il mio periodo di leva nel corpo dell’Aeronautica Militare.

Confesso che da allora conservo un po’ di astio irrazionale ogni volta che trilla la sveglia del mattino, ho smesso di fumare e mi rivolgo agli altri come avrei voluto facesse quell’omino.

Di lì a qualche anno, nel 2004, un decreto governativo firmato Berlusconi bis ha sospeso, non abolito, il servizio di leva obbligatorio allineandosi agli altri paesi europei che, ultima la Germania nel 2011, hanno fatto lo stesso.

Ricordo allora di non aver gioito: l’anno di leva è stato per me ricco d’esperienza e molto utile, umanamente e professionalmente.

In occasione del raduno a Treviso per la Festa degli Alpini, la ministra della Difesa Roberta Pinotti ha dichiarato alla stampa: “Ragioniamo sull’idea di riproporre a tutti i giovani e alle giovani di questo paese un momento unificante, allargato a tutti, non più solo nelle forze armate”

Non è la prima volta che se ne parla: già un paio d’anni fa Matteo Salvini aveva lanciato il sasso, dicendosi pronto a sostenere una proposta di legge per riportare in Italia la leva obbligatoria (o coscrizione).

Anche Macron in Francia e Peter Hultqvist, ministro della Difesa svedese, ne parlano, tanto che nel biennio 2018-2019 saranno 4.000 i giovani e le giovani svedesi nati nel 1999 a tornare ad addestrarsi.

Per prima cosa, nel riproporre la coscrizione, la nostra Difesa dovrebbe salvaguardare lo status quo evitando tre derive: la prima, che il servizio di leva diventi un periodo per bivaccare inutilmente nelle caserme; la seconda è che non deve mettere a repentaglio la professionalizzazione delle Forze Armate che negli ultimi 15 anni hanno fatto passi da gigante sia nell’addestramento che nella parità di genere di accesso ai reparti e alle missioni internazionali (il personale femminile è in crescita e in linea con i reclutamenti di altri paesi per i quali è più recente l’integrazione femminile); la terza, di continuare a garantire il servizio civile, integrando quello volontario con quello proveniente dagli obiettori di coscienza.

Di motivi populisti per il ripristino della leva è pieno il web e non smuoveremo le coscienze dei nostri giovani a colpi di: “agli italiani farebbe bene sperimentare le difficoltà della leva militare… L’esperienza educa alla vita, insegna a cavarsela da soli e permette di vivere nella società delle regole, nel mondo del lavoro”. Che presunzione pensare che l’unico modo per educare civilmente un giovane sia di renderlo un “coscritto costretto”. Andiamo oltre, vi va?

Perché la proposta sia sensata, possono essere utili un motivo e un modello: vediamo quali azioni stanno mettendo in atto i paesi europei, o extraeuropei a noi simili, per i quali la coscrizione è attiva o in via di riattivazione.

Nella fredda Svezia, lo schieramento dei missili russi a Kaliningrad ha messo in allarme la Difesa che, contando i suoi uomini, ha trovato grosse mancanze sia nelle truppe operative che nei riservisti (civili che mantengono un’attitudine militare mediante l’addestramento alla difesa). Hanno un problema di numeri e di scopertura (non fanno parte della NATO) verso gli scomodi vicini: no, non è la nostra situazione.

Le forze armate israeliane sono composte da quasi 200.000 effettivi, di cui il 34% donne, la leva dura 24 mesi per le donne e 36 per gli uomini e in caso di necessità possono essere mobilitati quasi 500.000 riservisti. È contemplato il servizio civile per gli obiettori di coscienza. È vero che Israele non è proprio oltre confine, ma le loro forze armate sono nate per “proteggere […] e combattere ogni forma di terrorismo che minacci la vita quotidiana”. Fuochino, anche se 2-3 anni di servizio militare, per la nostra posizione di appartenenti alla NATO, non si giustificherebbero.

Per gli svizzeri, i compiti dell’esercito sono volti alla salvaguardia dell’esistenza (bel concetto), in termini di sicurezza e difesa del territorio e, in territori esteri, nella promozione della pace.

Il servizio di leva è obbligatorio per gli uomini, facoltativo per le donne. Negli ultimi venticinque anni ci sono stati tre tentativi di referendum, l’ultimo nel 2013, per abolire tale obbligo: sono stati tutti respinti con ampie maggioranze.

Dai 18 ai 25 anni i coscritti frequentano le scuole di addestramento per circa 5 mesi, per poi essere richiamati a 6-7 corsi “di ripetizione” della durata di 2 settimane, fino ai 30 anni. In alternativa, possono svolgere in un periodo unico, di 10 mesi circa, i 265 giorni totali richiesti dal servizio senza essere richiamati per i corsi di ripetizione. Dopo i 30 anni entrano nella riserva con obbligo di tenere in buone condizioni le armi che conservano in casa e un giorno all’anno devono recarsi al poligono. La riserva dura fino a 65 anni.

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa”. Era il 1946 e l’art. 11 della Costituzione è stato scritto con il chiaro intento di permettere al nostro Paese, non propriamente pacifico fino a quel momento, di essere considerato un membro “amico della pace” ed entrare all’ONU. Nessuno allora poteva prevedere cosa sarebbe successo tra gli USA e l’ex URSS e, alla fine della “guerra fredda”, la comunità internazionale ha adottato un orientamento diverso volto a legittimare l’intervento militare a protezione e difesa di stati in cui fossero emerse emergenze umanitarie in palese violazione dei diritti umani.

Dagli angosciosi episodi di sangue nei paesi a noi estremamente vicini, in Francia, Belgio e Inghilterra, abbiamo imparato a conoscere minacce ben più striscianti di uno schieramento di missili e che hanno drammaticamente cambiato la nostra percezione di sicurezza: gli attacchi dell’ISIS, non possono non averci fatto osservare attoniti l’impotenza delle persone ferite, confuse, disperate che restano passive ad attendere i soccorsi.

Ciò che resta, dopo quelle immagini, è la paura e la sua fiamma può solo distillare, in condizioni di non conoscenza e impreparazione, intolleranza e isolamento.

Essere pronti, addestrati e consapevoli di cosa poter fare in situazioni del genere, in attesa e non in in sostituzione delle forze dell’ordine preposte, è un modello su cui la nuova leva potrebbe trovare un più ampio consenso. Non “contare i giorni all’alba”, ma far contare i giorni per sé e per gli altri.

Come avrebbe detto Kennedy nel giorno del suo insediamento: “Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”.

Tecniche di difesa, di primo soccorso, di predisposizione di un riparo, in cui donne e uomini si troverebbero fianco a fianco come cittadini e non come singoli individui. Aumenterebbe la tolleranza e si svilupperebbe un po’ di quell’etica sociale di cui tanto lamentiamo l’assenza, salvo poi proporre poche alternative per promuoverla.

Sul modello svizzero, la nuova leva italiana potrebbe essere limitata ad un periodo iniziale di 5 mesi, sufficienti per capire i meccanismi, per imparare l’uso delle armi, per interiorizzare la disciplina come strumento per affidare la propria sicurezza ad un altro che, come noi, è lì per lo stesso motivo, con almeno lo stesso coraggio.

Le venti settimane sarebbero sufficienti e non eccessive, così da evitare di perdere un anno di studi. Alla fine del periodo obbligatorio, alla recluta che volesse continuare l’esperienza militare dovrebbe essere permesso di rinnovare l’arruolamento fino al compimento dei 12 mesi, in modo da guadagnarsi il titolo per partecipare ai concorsi riservati ai militari professionisti. In alternativa, il richiamo ai corsi di approfondimento annuali di due settimane servirebbe a far rimanere “connessi” i coscritti fino al raggiungimento dell’età dopo la quale entrerebbero nella riserva selezionata che, al momento, conta “solo” di 42.000 unità tra le tre diverse Armi.

Il periodo di leva obbligatoria dovrebbe essere pagato dignitosamente, così da far comprendere anche l’indipendenza economica (seppur momentanea) a quei giovani che probabilmente fino ad allora non avranno avuto modo di guadagnarsi da vivere.

Ho altri suggerimenti, e i vostri commenti potrebbero essermi utili per organizzare i pensieri in una proposta vera e propria, e la direzione è chiara: smettiamo di considerare la leva come “naja” e restituiamo a tutti il privilegio di essere civilmente pronti in caso di necessità, a servizio della sicurezza nostra e del nostro, un po’ più vicino, prossimo.

Facebook
LinkedIn
WhatsApp

Potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca