Quali sono le condizioni psicologiche del popolo italiano, oggi, dopo l’emergenza sanitaria e nel pieno di una seconda crisi economica, che complica ulteriormente una situazione già critica?
«Le condizioni di salute psicologica in questa epoca storica, prima ancora dell’avvento dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, non sono buone, come in altre parti dell’Occidente. Viviamo in una società intrisa di istanze divisive, paranoidi e narcisistiche, in cui i garanti metapsichici, come l’Io e il Super Io, in un divenire costante, non trovano certezze neppure nei garanti meta-sociali, le istituzioni, delegittimate. Nel complesso, il nostro popolo e il nostro vivere comunitario non appare in ottima salute».
Che effetto ha avuto a livello psicologico l’emergenza Covid-19, che peraltro non ci ha ancora lasciato?
«Questo stato di precarietà ha enfatizzato i migliori aspetti delle persone, ma anche i peggiori. Mi riferisco soprattutto al bisogno regressivo di polarizzazione e di convinzioni usa e getta che hanno pochi fondamenti, se non quelli di farsi attrarre da un bisogno di “identificazione a massa” in un polo, piuttosto che non nel suo opposto. Tutto questo è divisivo, e ciò che risulta divisivo nelle situazioni di emergenza non fa assolutamente bene».
E il lockdown, lo stare confinati in casa, è pesato e in che misura?
«Per quanto riguarda il periodo di lockdown non si può dire a chi sia pesato di più e a chi di meno se non si tiene conto delle situazioni abitative, familiari, affettive, economiche, lavorative in cui ogni soggetto si è trovato ad affrontare una misura così estrema e mai sperimentata. Pertanto, su alcune persone ha avuto un effetto molto angoscioso, su altre, meglio supportate da condizioni socio-economiche e di salute preesistenti, ha avuto un impatto negativo minore».
Come è stata e come ha influito sulla nostra psiche l’informazione e la comunicazione su quanto stava accadendo?
«In una situazione di emergenza una buona comunicazione è fondamentale. Se però ci troviamo in quella citata situazione di delegittimazione e sfiducia nelle istituzioni essa nasce male in partenza, senza approfondire sulla dinamica di questo cattivo rapporto tra cittadino e istituzioni. Non sarebbe difficile per le persone capire che vanno seguite le indicazioni delle istituzioni con ruoli e poteri decisionali. Invece, complice certa stampa e certi media, si è fatto credere che chiunque potesse avere ragione rafforzando quel senso di sfiducia in un momento in cui c’era invece bisogno di pochi concetti ma chiari».
Cosa ha pesato di più sui messaggi che sono passati, i contenuti o i mezzi?
«Direi entrambi. Un virus, quantomeno veloce, sconosciuto e subdolo si è abbattuto per la prima volta nell’era degli strumenti comunicativi altrettanto veloci, subdoli e mentalmente contagiosi creando un mix esplosivo che ha causato il disorientamento. Per questo sono necessarie istituzioni credibili e cittadini che non si rifugino nel diniego e nel complottismo semplicemente per non ammettere la paura. Si può avere paura insieme e occuparsi del problema e non sterilmente pre-occuparsi e farsi paralizzare dall’ansia e quindi dalla rabbia».
C’è una categoria (bambini, anziani ecc.) che ne esce peggio?
«I bambini hanno molte risorse e penso abbiano più possibilità di costruirsi una narrazione propria fatta anche di nuovi eroi – i medici o gli infermieri, ad esempio – e quindi di far funzionare la loro fantasia positiva, a patto che vivano in ambienti capaci di mediare le informazioni in un gioco o in una sfida, come ci ha insegnato Benigni nel film La vita è bella. Per quanto riguarda gli anziani, indicati come categoria a rischio massimo, si sono sentiti ancora più vecchi e di peso per gli altri, e molti di loro hanno riferito di non voler stare chiusi in casa proprio perché si trattava dell’ultimo periodo della loro vita. Quindi per loro credo sia stato forse anche più pesante».
Un’esperienza che ci segnerà a lungo?
«È un’esperienza che segnerà a lungo le persone che, per i motivi detti precedentemente, hanno subito più danni non solo psichici ma anche economici, sociali e affettivi da questo improvviso modificarsi dello stato di convivenza. Per alcuni peserà molto meno, addirittura verrà ricordato come un momento di rottura (“crisis” in greco significa proprio questo) e cambiamento, ovvero una circostanza tragica ma fortuita che ha portato a scelte di vita diverse o ad apprezzare ciò che non si sapeva essere così importante per ognuno di loro».
Poi c’è la difficile situazione economica che tra qualche mese rischia di farsi sentire eccome. Un ulteriore peso?
«Le previsioni sulla situazione economica mi pare siano molto negative, però è anche vero che ci troviamo a rivivere in parte ciò che è successo nel 2012, sebbene in modo più drammatico. Da alcune ricerche effettuate in quegli anni si è evidenziato che le conseguenze psico-patologiche peggiori colpirono principalmente le persone che avevano una carenza di supporto sociale/affettivo e quindi di un qualcosa che li potesse gratificare nel quotidiano. Queste persone fragili prive di altre fonti di gratificazione subirono effettivamente dei veri e propri crolli psicologici, anche acuti. Il dato fondamentale è da riassumersi in ciò, smentendo la correlazione diretta “crisi uguale malessere psichico”. Malessere sì, ma dove il terreno è già favorevole: laddove l’immunità psichica ha reazioni eccessive, proprio come nel caso del coronavirus, è la stessa eccessiva reazione contro l’agente esterno a provocare i danni maggiori».
A livello psicologico, oggi cosa dà più ansia: la salute o il lavoro?
«Mi sembra che il caso emblematico in Italia sia quello di Taranto, in cui i lavoratori dell’ex Ilva devono quotidianamente scegliere tra salute e lavoro. Sono dicotomie piuttosto drammatiche e in una società matura, civile, moderna, tale scelta non dovrebbe mai doversi porre. Credo che per certe categorie di persone né il lavoro né la salute preoccupino, perché appartengono a classi privilegiate o hanno validi ammortizzatori sociali: in tal caso queste persone penseranno maggiormente alla salute. Ci sono persone, al contrario, che rischiano di non poter mangiare e mantenere la propria famiglia e si ritrovano costrette quindi a privilegiare il lavoro».
Qual è il rischio maggiore?
«Il rischio maggiore è che, essendo molto diverse ed eterogenee le condizioni delle persone che affrontano questa pandemia, si creino polarizzazioni generazionali e di fasce sociali. Mi riferisco ad esempio alle “partite Iva”, diverse dai lavoratori dipendenti o autonomi, o la diversità tra settore pubblico e privato. In tal modo si crea una divisione tra vari strati della popolazione e prese di posizioni estreme che privilegiano il breve termine rispetto a scelte ponderate e lungimiranti che altri individui si possono permettere. Bisognerebbe che ognuno capisse colui che è diverso da se stesso e che si passasse alla cultura del dono come fenomeno virtuoso circolare».
Quanto pesa perdere il lavoro, l’azienda…?
«Perdere un’azienda in cui una persona si è identificata pesa moltissimo, indipendentemente dal fatturato. Ciò avviene soprattutto nel caso delle aziende familiari investite di un importante significato identitario. Logicamente, in questa situazione la perdita di un’azienda potrebbe essere devastante sul piano psicologico. Altra cosa è perdere il lavoro da dirigente di una grande azienda che non è familiare e in cui non ci si è identificati totalmente, lasciando aperta l’opportunità di riciclarsi in altri settori, sebbene abbia visto affermati manager di multinazionali entrare in vere e proprie situazioni di sconforto. In generale, comunque, tanto più l’identità si riconosce nel proprio lavoro tanto più i rischi sono maggiori, ovvero laddove io sono quello che faccio e non quello che sono».
E su chi non perde nulla in concreto, ma magari perde la possibilità di perseguire un progetto agognato da tempo?
«Anche in questo caso in cui il concreto può non venire perso, tanto più l’identità del soggetto si identifica in quel possibile progetto (come riscatto sociale o anche solo come nuova fase di vita), tanto più la frustrazione e la rabbia, specie se accompagnate da solitudine esistenziale, possono creare stati depressivi reattivi».
Parliamo dei manager. Quando perdono il lavoro, per l’investimento fatto, le conseguenze psicologiche possono addirittura essere peggiori di quelle di altre categorie?
«Sicuramente quello del manager è un lavoro particolare in cui sono richieste delle capacità di intraprendenza, di progettualità e visioni del mondo non comuni. In tal caso, se c’è stata un’identificazione massiccia, la crisi e il fallimento avranno conseguenze psicologiche negative più delineate. Le capacità di resilienza e il pregresso stato di solidità del proprio Sé potrebbero consentire invece un momento di riflessione e forse anche di rallentamento dei propri ritmi. Il termine manager peraltro mi pare vasto. C’è il manager per eccellenza dotato anche di un profilo di personalità peculiare creativo, performante, dedito alla causa e quindi potenzialmente più esposto alla velocità negativa del cambiamento se non capace di reinventarsi o di leggere la situazione in anticipo».
Quelli che restano al lavoro o che lo ritrovano, devono cercare la forza di guardare avanti e di immaginare un futuro migliore?
«Certo, anche se credo che più che far leva sulla volontà, sulla forza e sulla resistenza sia necessario ripensare non a un futuro o a un ritorno alla normalità intesa come prima (non si trattava già più di una normalità), ma a un futuro diverso perché l’eccessiva velocità no limits ha portato essa stessa al breakdown attuale. L’eccesso di volontà, il togliere troppo tempo alle cose utili a se stessi e ai propri affetti non portano a nulla di buono generalmente».
Poi hanno anche il compito di risollevare, rimotivare, dare un progetto nuovo ai loro collaboratori?
«Per risollevare e rimotivare solitamente c’è la possibilità di creare, a partire dalle difficoltà precedenti, utilizzando risorse e aspetti di resilienza, trovando dei nuovi validi obiettivi. È il caso di ripensare a un futuro che non può non avere obiettivi primari quali quelli del bene comune, della salute pubblica, dell’ambiente e dell’innovazione digitale e tecnologica, che in questo caso sarebbero molto comode. Si dovrebbe pensare a una tecnologia a servizio dell’uomo e non il contrario. Ma, a mio avviso, gli stessi manager potrebbero ritagliarsi un ruolo ben più importante smarcandosi dal mondo delle post-verità e della post-logica (ovvero quel tale che, pur piovendo, invece di uscire con l’ombrello esce con le ciabatte dicendo che non piove). Si fa in fretta a farci venire in mente i recenti litigi tra più o meno esperti sulla reale pericolosità e contagiosità del virus, se non addirittura sulla sua presenza, e non parlo solo dell’Italia che, nel complesso, si è comportata bene».
Cosa o chi a livello psicologico può smuovere e dare forza, coraggio, sensazioni vincenti?
«La chiarezza degli obiettivi e, appunto, evitando la trappola che si riassume poi in reazioni disfunzionali, la post-logica di orwelliana memoria detta anche “bipensiero”, doublethink. Guardiamo ad ora: “metti la mascherina che il virus è al suo picco”, mentre perdiamo conoscenti persiste la convinzione che “il virus non c’è, esco senza”. Se viviamo a qualunque livello nell’era del bipensiero post-logico e i nostri referenti politici e istituzionali o i media, più o meno consapevolmente, cascano in questa trappola divisiva e quasi delirante, a mio avviso non ci sono speranze. A questo punto, stimando la capacità e anche l’intelligenza emotiva dei nostri manager, credo che possano proprio interpretare il ruolo di dissuasori del bipensiero e delle polarizzazioni di cui ho parlato per tornare a un pensiero più ancorato alla realtà e a riconoscere ciò di cui veramente abbiamo bisogno. Vanno però aiutati a crederci superando ostacoli politici e clientelari ancora incancreniti nel nostro Paese e a volte anche, come per tutti, intimamente personali».
A livello collettivo, cosa serve per guardare avanti con fiducia?
«Servirebbe credere nella cultura del dono, un dono non “ut des” ma che vada da A a B, da B a C, da C a D, in un circuito per cui la virtuosità dell’esperienza emotiva porti a soddisfazioni, entusiasmi e sensazioni umane di comunanza che hanno una ricaduta sulla propria qualità di vita. Non si deve investire collettivamente invece sulla contrapposizione e sugli eccessi di polarizzazione di ideologie o pensieri. Anche in un mondo competitivo come quello delle aziende e delle imprese dovrebbe essere possibile intraprendere questo cammino».
Quanto è importante la vicinanza, la solidarietà, il sentirsi parte di una comunità, piccola o grande che sia?
«Sentirsi parte di una comunità è molto importante. E una comunità senza la cultura del dono non è una comunità sana. Ripenso a quel filosofo dei nostri tempi che parlava di reazioni immunitarie delle comunità come un eccesso di anticorpi psichici contro qualcosa di nuovo e questo fa l’individuo immunitario. L’individuo comunitario invece è quello che riesce ad approdare al paradigma dell’ego-cum, quindi non solo ego-sum. Il Sé nasce nel “cum”, ed è per questo che il senso di appartenenza e di comunità è molto importante in una società».
Servono anche dei leader per risollevarci?
«Sicuramente servono più leader e meno capi, leader appunto capaci di leggere la realtà presente senza lasciarsi ipnotizzare dal mondo delle false illusioni delle post-verità, del bipensiero, ma competente e capace di modulare l’immunità psichica. È chiaro che andrebbe aiutato e qui l’importanza di una figura in azienda che abbia queste competenze».
E cosa devono fare e come devono farlo?
«Credo di avere in parte risposto precedentemente. Di certo non ci può essere leader e capo senza che esso sappia trasmettere l’entusiasmo e l’esempio: si costruisce un team dando esempio. L’investimento umano sui propri collaboratori e la loro qualità di vita, nonché gratificazione professionale, è di estrema importanza per sentirsi squadra».
Qual è la cosa più importante che ci serve a livello collettivo per guardare avanti e non indietro?
«Il paradosso attuale è che in questa situazione avremmo bisogno e dovremmo essere uniti ma anche distanti e ciò sarà l’operazione più difficile, perché noi tutti abbiamo bisogno, per stare bene, di fisicità e condivisione. Ora la prima manca, ma il cum-dividere non necessita di sola fisicità. Oggi, come non mai, la condivisione e la comunicazione tra persone di differenti ruoli professionali è determinante. Questa che si è presentata può essere un’irripetibile occasione per riconvertire non solo le produzioni per far sopravvivere economicamente un’impresa o un’azienda, ma per attuare un’epistemologia differente».
Cosa può scatenare la voglia di cambiare, innovare… un aspetto che il nostro Paese sembra aver perso da tempo?
«Esattamente quello che dicevo nelle risposte precedenti: riconvertire, rigenerarsi, cogliere l’occasione per inventare un nuovo futuro. Ovviamente dipende molto da come è costruita la società in cui si vive e al tipo di attività dell’azienda. Un contesto pieno di clientelismi o di associazioni più o meno legali di potere, e quindi di prevaricazioni e privilegi per pochi, è difficile che possa cambiare degenerando in quello che in parte sta già avvenendo, ovvero in una rabbia che porta a fenomeni sociali regressivi che ho elencato prima. In questo senso l’Italia non parte molto bene e non è avvantaggiata rispetto ad altri paesi europei, anche se non dimentichiamo che se nei paesi del Centro o del Nord Europa vige un’organizzazione e un senso di comunità e civiltà maggiori per il bene comune, per l’ambiente, i diritti civili, è vero anche che l’Italia ha dalla sua parte l’intraprendenza e la capacità di innovare. Io credo che più che la voglia che manca in questo Paese, questi siano stati lunghi anni di intorpidimento ipnotico, a causa di una classe dirigente e politica che ha puntato su passioni tristi, fragili, usa e getta, e non su uno spazio e un qui e ora pregno della storia passata e del momento presente e del sentimento della speranza e della fiducia. In questo senso ci sarà molto da lavorare in un’Italia che sta facendo di un virus una questione politica e non sanitaria. Siamo comunque in buona, o cattiva, compagnia, ma questo non deve essere un alibi».