Licenziare tramite WhatsApp: andiamoci piano!

Il Tribunale di Catania ha ritenuto legittimo un licenziamento intimato a mezzo WhatsApp a un proprio dipendente. La tecnologia è destinata a correre sempre di più rispetto al diritto e oggi più che mai. Ma esiste un confine o un punto di equilibrio?

È la notizia di questi giorni. Il Tribunale di Catania ha ritenuto legittimo un licenziamento intimato a mezzo WhatsApp a un proprio dipendente. Già l’anno scorso il tribunale di Genova aveva ritenuto legittimo un licenziamento intimato per sms. Non ci stupiamo. La tecnologia è in continua evoluzione, anzi galoppa avanti al diritto, ivi compreso il diritto del lavoro che non può certo competere: la tecnologia è destinata a correre sempre di più rispetto al diritto e oggi più che mai. Allora è lecita la domanda: qual è il giusto confine o punto di equilibrio fra la tecnologia e il diritto?

Ricordo il caso ben più grave di qualche settimana fa in America, dove una donna è stata ritenuta colpevole di omicidio per i messaggi scambiati su Facebook con il proprio fidanzato (depresso) con cui lo istigava al suicidio. 

E quindi la riflessione è doverosa: il problema è nuovo ovviamente, ma va affrontato con le categorie (antiche) del diritto che conosciamo, in particolare l’art. 2 e l’art. 6 della legge 604/66 sulla tutela dal licenziamento illegittimo, dove si prescrive che sia il licenziamento che il successivo atto di impugnazione (art. 6) – che com’è noto deve essere comunicato pena di decadenza entro i 60 gg successivi dalla “ricezione della sua comunicazione in forma scritta” – debbano essere comunicati per atto scritto. A ciò si aggiunge il nostro codice civile con l’art. 2702 cc dove si definiscono le caratteristiche che gli atti scritti devono avere per poter produrre degli effetti giuridici (quali ad esempio un licenziamento).

Ebbene, a mente di tali poche norme mi pare che la conclusione del Tribunale di Catania sia alquanto frettolosa. Vi spiego perché.

Se è vero infatti che la giurisprudenza consolidata riconosce ormai una certa ampiezza di forma con cui possono essere intimati i licenziamenti (purché non oralmente) non esistendo formule sacramentali (e altrettanto alla impugnazione del licenziamento) è ancora requisito fondamentale che il licenziamento debba essere comunicato per iscritto. Su questo tema va registrata una certa e giusta prudenza da parte della nostre Corti, tenuto conto della delicatezza dell’argomento che necessita al contrario di certezza dei rapporti e ridotta ambiguità in caso di contestazione (almeno sulla forma).

Al riguardo va ricordato l’art. 2702 c.c. che ai fini dell’efficacia della scrittura privata e degli atti unilaterali recettizi (come appunto il licenziamento ex art. 1324 c.c.) impone la sottoscrizione da parte del soggetto da cui la scrittura privata o l’atto proviene.

Non sembra in alcun modo che il messaggino WhatsApp (o sms o il messaggino a mezzo Facebook o LInkedin o Windows Messanger per dirne alcuni) possa validamente assolvere tale requisito della necessaria sottoscrizione, richiesta proprio per “attribuire” al mittente la paternità della dichiarazione e pertanto la sua efficacia nei confronti di terzi.

Unica eccezione contemplata dal nostro codice civile è il telegramma (art. 2705 c.c.), laddove pure in mancanza della sottoscrizione da parte del mittente viene attribuita un’efficacia se l’originale, anche se non sottoscritto dal mittente, “è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo”.

A mente di tali pochi passaggi mi pare escluso che la messaggistica “social” possa essere considerata valida ai fini della forma richiesta (a pena di efficacia!) del licenziamento.

E infatti validare il licenziamento intimato a mezzo “messaggistica social” induce (se non crea) l’altro problema dei termini di impugnazione del licenziamento (60 gg a mente dell’art. 6 L. 604/66) ) che, come è noto, decorrono dal momento in cui il licenziamento è stato comunicato.

È chiaro a tutti che consentire il licenziamento a mezzo WhatsApp o equipollenti crea l’incertezza del termine da cui decorre l’impugnazione del recesso: mentre infatti la classica raccomandata ha pur sempre una data certa (sia che la si riceva a mano  a casa sia che venga lasciato l’avviso di compiuta giacenza) così non è per la messaggistica sociale, che ben potrebbe non essere letta o non consegnata per motivi di rete o connessione sia in ultima analisi si presta a manomissioni o cancellazioni da parte del ricevente con ulteriori problematiche in ordine alla certezza della comunicazione.

A mente di tali pochi passaggi mi pare escluso che la messaggistica “social” possa essere considerata valida ai fini della forma richiesta (a pena di efficacia !) del licenziamento.

C’è poi un dato, diciamo così, sociale se non sociologico: il licenziamento è pur sempre un atto che si porta dietro un’indubbia drammaticità, con tutte le conseguenze sociali e familiari economiche che produce: è bene che sia dotato ancora di una sua sacralità. La lettera raccomandata su carta intestata dell’azienda ha ancora, credo, questo valore di meditata riflessione, con tutte le conseguenze del caso (il licenziamento per sms o WhatsApp si porta sempre dietro anche una carica di disvalore ulteriore (“mi hanno licenziato con sms!”) che getta discredito sull’azienda che lo attua. 

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