Legge di bilancio: non ci piace

Il commento di Massimo Faschi, segretario generale Manageritalia, sulla legge di bilancio ancora in discussione
Analizzatore di affari di lavoro di squadra di ufficio del lavoro di carta

Mentre attendiamo l’esame della Camera dei Deputati, senza aspettarci sorprese dopo il via libera di Palazzo Madama, possiamo dare il nostro giudizio a caldo sulle misure della legge di Bilancio in materia di pensioni e salari. In sintesi rimaniamo critici. Più che singole scelte restrittive, colpiscono le continue indecisioni che caratterizzano l’intervento del legislatore su un tema che avrebbe invece bisogno di certezze e stabilità di lungo periodo. Il sistema previdenziale non può essere rimesso in discussione a ogni legge di bilancio, né i lavoratori possono essere costretti ad attendere ogni anno la novità del legislatore di turno per capire quando e come potranno andare in pensione.

Pensioni: manca la visione a lungo termine

La manovra conferma una linea ormai evidente: trattenere quanto più possibile le persone al lavoro, ritardare o disincentivare le uscite anticipate. L’adeguamento alla speranza di vita viene reintrodotto in modo graduale, ma porta comunque a un innalzamento dei requisiti: dal 2027 servirà un mese in più, che diventeranno tre mesi dal 2028, con pensione di vecchiaia a 67 anni e tre mesi oppure con 43 anni e un mese di contributi per gli uomini e un anno in meno per le donne. Viene confermato il bonus per chi rinuncia alla pensione e resta al lavoro.

Non c’è invece particolare rammarico per la fine delle cosiddette “quote”. Lo abbiamo sempre detto con chiarezza: sono state misure costose, non strutturali, che hanno beneficiato pochi italiani per un periodo limitato. Nulla che non sia strutturale può essere seriamente finanziato. Se una misura non può essere garantita a tutti e per sempre, diventa una fregatura per chi non riesce a beneficiarne. Ed è esattamente ciò che è accaduto: chi non ha usufruito delle quote non solo non ne ha tratto vantaggio, ma ha anche visto risorse pubbliche rilevanti disperdersi. La domanda, oggi, è inevitabile: chi paga il conto di questa impostazione?

Molto più critica, invece, la valutazione sulla cancellazione di Opzione Donna. Qui il giudizio è netto: quella era la strada giusta. Non una misura temporanea, ma uno strumento che doveva diventare strutturale. Con penalizzazioni attuariali corrette, l’uscita anticipata è sostenibile e consente alle persone di scegliere consapevolmente. La soluzione non doveva addirittura essere limitata alle donne, ma estesa a tutti: un vero “quoziente di scelta”, valido per uomini e donne, che permetta a ciascuno di fare i propri conti e decidere quando uscire dal lavoro. Aprire finestre e poi richiuderle produce solo un effetto perverso: chi può scappa, gli altri restano dentro al freddo e con meno soldi.

In questo quadro di incertezza si inserisce anche il passo indietro sull’uscita a 64 anni per i lavoratori privati. Non avevamo mai considerato risolutiva la possibilità di utilizzare le rendite della previdenza complementare per raggiungere l’importo minimo della pensione di vecchiaia, ma cancellare questa norma a distanza di un solo anno dalla sua introduzione, per di più da parte dello stesso governo, restituisce l’immagine di una evidente confusione. Un approccio pericoloso su un tema così delicato, perché mina ulteriormente la fiducia nel sistema previdenziale e rende impossibile una pianificazione di lungo periodo.

Segnali positivi per TFR e salari

Sul TFR e sulla previdenza complementare si registra almeno una direzione coerente: dal 1° luglio i neoassunti del settore privato dovranno esprimersi sulla destinazione del TFR, altrimenti scatterà il silenzio-assenso verso i fondi complementari. È un riconoscimento del ruolo necessario del secondo pilastro, anche se siamo ancora lontani da un disegno pienamente compiuto. La strada è giusta, ma siamo ancora su un sentiero, non su un’autostrada.

Sul fronte salariale vanno riconosciuti alcuni segnali positivi. Gli incentivi sugli accordi di produttività, che legano una parte della retribuzione a obiettivi di efficienza, qualità e risultati, e la detassazione degli aumenti contrattuali, con aliquota agevolata al 5 per cento entro determinati limiti di reddito, vanno nella direzione corretta. A questi si aggiunge lo sconto IRPEF, rispetto al quale va chiarito un punto: non è vero che a beneficiarne di più siano i redditi alti. Quando si riduce un’aliquota e allo stesso tempo si introduce un tetto massimo di beneficio, a perdere sono proprio i redditi più elevati, che vedono ridursi proporzionalmente il vantaggio.

Resta però il limite di fondo: si tratta di misure parziali, non applicabili alla generalità dei lavoratori italiani e quindi insufficienti a risolvere il problema strutturale del potere d’acquisto. Il tema dei salari in Italia è il vero nodo non sciolto. Se la politica fatica ad affrontarlo in modo organico, è inevitabile che una parte della responsabilità ricada sul sistema produttivo e sulle Parti sociali, attraverso rinnovi contrattuali più coraggiosi e innovativi. Come crediamo di aver fatto noi di Manageritalia.

Più manager per un lavoro di qualità

In questo contesto il ruolo dei manager diventa centrale. I manager sono il punto di snodo tra strategie d’impresa, organizzazione del lavoro e valorizzazione delle persone: possono tradurre produttività, innovazione e crescita in salari migliori, occupazione di qualità e maggiore inclusione. Aumentare nei prossimi anni sia la quantità dei lavoratori sia la qualità del lavoro non è solo una sfida economica, ma una responsabilità sociale. Ma i manager sono troppo pochi in Italia, per la struttura dimensionale delle nostre aziende ma anche per una cultura familiare di troppi imprenditori poco inclini ad aprirsi alle competenze esterne. In gioco non c’è soltanto l’equilibrio del welfare state, ma la tenuta complessiva del nostro modello di sviluppo.

Nel complesso quindi emerge una manovra prudente, frammentata e poco coraggiosa, ma che lascia spazio alle forze sociali nel cercare soluzioni, indispensabili perché senza stabilità normativa, senza strumenti strutturali sulle pensioni e senza una vera riforma fiscale che premi in modo diffuso il lavoro rispetto alle rendite, il rischio è quello di continuare a produrre incertezza e sfiducia su due pilastri fondamentali della coesione sociale.

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