La street art a Milano: vandali, guru e questioni scottanti

Considerata fino a pochi anni fa puro e semplice vandalismo, e come tale duramente repressa, oggi, al contrario, viene vista come valido e pregevole strumento di riqualificazione di grigie periferie urbane

L’arte, si sa, non è una scienza esatta, non risponde a criteri universalmente riconosciuti, e ciò, di conseguenza, rende impossibile ogni tipo di giudizio assoluto.
Chi stabilisce cosa sia esteticamente bello e cosa no? O, più in generale, chi decide cosa sia arte e cosa no?

La storia dell’arte è una miniera inesauribile di “casi” su cui riflettere: da Giotto a Caravaggio, da Van Gogh a Picasso, da Monet a Dalì, tanto per citare solo alcuni tra i più grandi “pazzi” della storia. La loro colpa? Aver cercato di svecchiare il linguaggio artistico introducendo nuove tecniche o temi, ovvero contribuendo all’evoluzione dell’arte.
Naturalmente la storia si ripete costantemente, ed eccoci quindi a discutere del fenomeno della street art.

Considerata fino a pochi anni fa puro e semplice vandalismo, e come tale duramente repressa, oggi, al contrario, viene vista come valido e pregevole strumento di riqualificazione di grigie periferie urbane.
Sviluppatasi in America negli anni 70 e poi dilagata nel resto del mondo, la street art ha sempre avuto come obiettivo quello di portare l’arte sotto gli occhi di tutti, rendendo un diritto inalienabile per ogni cittadino la possibilità di poter godere gratuitamente della bellezza. Tanto colore, certo, ma anche temi sociali scottanti, proteste e argomenti di attualità su muri, sottopassi di stazioni ferroviarie, vagoni della metropolitana ecc. Tutto questo, naturalmente, perfettamente illegale e perseguibile!

Eppure oggi quegli stessi artisti multati e condannati vengono chiamati a realizzare le proprie opere direttamente con il patrocinio di amministrazioni comunali o enti locali nel pieno rispetto del concetto di evoluzione dei tempi. A riassumere perfettamente il concetto ci pensa la street artist Alice Pasquini, che in un’intervista dichiara: “Quando ho cominciato (inizio anni 2000) non si chiamava street art. Fare i muri per strada si diceva fosse da sfigati. Ma se mi avessero detto che sarei finita sulla Treccani o che qualcuno mi avrebbe pagato per dipingere un muro non ci avrei creduto. A pensarci adesso è stata una rivoluzione”.
Sì, perché oggi la street art è quotata nel mercato dell’arte, pagata cifre elevate e addirittura in grado di far salire il valore di un immobile su cui si trovi il murales di un artista famoso di oltre il 20% del suo valore.

Milano si conferma città all’avanguardia in questo settore: qui si può parlare addirittura di street art di impresa, ovvero grandi aziende che per far crescere il proprio marchio promuovono questa forma d’arte. La distilleria Branca, in occasione dei 170 anni di attività, ha affidato al collettivo Orticanoodles la decorazione della ciminiera, ben 55 metri, trasformandola nel murales più alto d’Europa. Operazione simile è stata portata avanti anche da Campari tramite la decorazione dei muri perimetrali della storica fabbrica di Sesto San Giovanni, o da Gucci nel centralissimo corso Garibaldi.

Più articolato è invece il caso di Ikea: il colosso svedese ha promosso una campagna intitolata “Ikea loves earth” incaricando 21 street artist di dipingere muri in 19 città utilizzando un materiale innovativo di nome airlite, una pittura naturale che attraverso l’energia della luce è in grado di ridurre la concentrazione di particelle di ossido d’azoto presenti nell’aria abbattendo notevolmente il grado di inquinamento. Non soltanto, quindi, una scelta di marketing, ma soprattutto uno strumento di sensibilizzazione verso grandi temi.

Ma le novità maggiori, o forse solo più sorprendenti alla luce di anni di repressione durissima, si riscontrano nell’ambito dei progetti patrocinati dalla pubblica amministrazione, e ancora una volta Milano fa da capofila. È del 2015 l’idea di Energy Box, parte di un progetto di arte urbana che mirava a rendere la città un’enorme galleria a cielo aperto, in cui ad ogni street artist furono affidate 3 centraline semaforiche da poter decorare.

Nel 2016 poi l’assessorato al decoro urbano promuove l’iniziativa 100 muri liberi, ovvero un link in cui sono riportati tutti gli spazi, da aree ferroviarie a ponti, in cui gli artisti possono esprimersi legalmente e liberamente.
L’interesse è talmente alto che nel 2017, nell’ambito del Bando alle Periferie, tra i progetti che si aggiudicano un finanziamento comunale spicca MAUA, Museo di Arte Urbana Aumentata, il primo vero museo a cielo aperto con l’ausilio della tecnologia. In cinque macro aree periferiche e grazie alla segnalazione degli abitanti vengono mappate opere di street art (ad oggi sono ben 218), dopodiché, scaricando l’App Bepart su Android o IOS e seguendo la mappa si raggiungono le singole opere che, inquadrate dal dispositivo, si animano e prendono vita grazie alla tecnologia della realtà aumentata.

Non possiamo dimenticare, inoltre, il Progetto Ortica, rivolto all’enorme quartiere alla periferia est della città, che si vorrebbe vedere trasformato a breve in moderno polo culturale: a tal proposito sono stati coinvolti famosi street artist perché realizzino 20 murales (4 già completati) che narrino la storia del ‘900, dai Martinitt al Cardinal Ferrari alle donne della Resistenza.

Sicuramente iniziative di questo genere piacerebbero a Blu, artista bolognese, che nel 2016 cancellò quasi tutte le sue opere dai muri della propria città perché in occasione di una grande mostra a Palazzo Pepoli qualcuno aveva avanzato l’ipotesi di staccarli dal contesto originario ed esporli a pagamento!
Questo ci porta alle grandi contraddizioni legate al fenomeno in questione: si può estrapolare un’opera di strada pensata come fruibile da tutti per trasportarla in un museo e trasformarla in opera sottoposta a rigide regole di mercato e quotazioni?

E poi, cosa ne è della totale libertà di espressione dell’artista se il programma iconografico viene preventivamente concordato con l’azienda committente o addirittura sottoposto a censura da parte di un’amministrazione comunale nel caso in cui i toni non siano politicamente corretti o si risulti offensivi verso le religioni?
E ancora, cosa succede ai quartieri, spesso di estrazione popolare, in cui operano street artist di fama mondiale?

Vale la pena citare una famosa lettera scritta da un abitante del quartiere londinese di Hackney niente meno che a Banksy, fenomeno di caratura mondiale, in cui si invita elegantemente l’artista ad andare a operare da un’altra parte poiché per “colpa” sua gli immobili sono saliti di valore e il costo della vita nel quartiere è diventato insostenibile!


Tutte questioni aperte, per non entrare nel merito della differenza tra street art e graffiti, le scritte spesso incomprensibili che imbrattano muri di edifici pubblici e privati e per cui il Comune di Milano ha stimato in circa 100 milioni di euro il costo necessario per la rimozione totale.

E noi come ci dobbiamo porre di fronte a tali questioni? Nell’attesa di sapere se il criminale di oggi sarà il Santo di domani non ci resta che godere dell’esplosione di colore e vita nelle nostre città.


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