La sindrome del manager in vacanza

Tra il serio e il faceto, stereotipi e prototipi… la vacanza logora chi non la fa davvero

Concedetemi un aneddoto per spiegare la sindrome.

Appena laureato, ero a Creta per 3 mesi a lavorare come Tourist Rep per una grande agenzia di viaggi organizzati.

Tra le mie mansioni c’era quella di accogliere i clienti appena sbarcati all’aeroporto e accompagnarli al loro hotel (di solito resort 5 stelle).

Ed eccolo lì, la scena fantozziana del manager “in vacanza”…

Vedo avanzare un carrello così carico di valigie che non si vedeva chi lo spingeva: ricordava una scena di qualche sito di costruzione megalitico (piramidi, Stonehenge… fate voi). Borse e valige, seppur ordinatamente posizionate, oscillavano pericolosamente ad ogni buca che prendevano le ruote del carrello. A fianco dell’ignoto spingitore di carrello c’erano due ragazzine di 7-8 anni che zompettavano allegramente come due ninfe ubriache (eppure erano le 7 del mattino!) e una moglie sulla quarantina, della Milano bene (le si riconosce ovunque), che armeggiava con una mappa dell’isola (ai tempi si usava ancora la carta per le mappe) parlando ad alta voce di cosa fare, dove andare.

Immaginatevi la scena con un tocco di profumi del luogo… dalla pista di atterraggio arrivavano i miasmi del carburante da charter, un caldo avvolgente puzzo di asfalto così appiccicoso che ti penetrava i vestiti, i gabbiani in aria che facevano casino, le navette alle mie spalle con il motore acceso, per l’aria condizionata, sputavano fuori diesel combusto.

Carico la famigliola milanese felice e li porto in albergo; i miei ospiti sarebbero rimasti 2 settimane, in un hotel con tutti i comfort disponibili, compreso internet nelle stanze (nel 2003 non era cosa scontata a Creta).

5 giorni dopo ero a far colazione nella brasserie dell’albergo. Ero lì seduto e contento, dopo aver fatto razzia al buffet (che era lungo circa 9 metri con ogni cibo che un foodie possa desiderare per colazione), e mi si siede al tavolo il mio cliente spingitore di carrelli. Per comodità, lo chiameremo Mario.

Io stavo per cacciarmi in bocca una crêpe appena fatta, con marmellata di arancia biologica coltivata sull’isola.

Mario mi guarda con gli occhi di uno che ha appena scampato l’ira di una Banshee urlante con gli occhi pietrificanti di Medusa e tante braccia quanto la dea Kali e mi dice. “Senta Verga, cos’altro c’è da fare su questo scoglio?”.

Mario mi spiega che nei primi 5 giorni si era già fatto tutte le visite turistiche, i monumenti, le spiagge ecc.

Ora Mario aveva il terrore di passare i successivi 10 giorni con la signora moglie che lo massacrava ricordandogli i suoi doveri di padre, di marito (tempo di qualità), di maschio (non vado oltre).

Il Mario non aveva con sé nessuna lettura di business (venne fuori che il Mario era ceo della sede italiana di una grande multinazionale europea). Gli feci presente che ci si poteva collegare dalla stanza a internet. Non lo ricordava. Vidi negli occhi del Mario balenare una luce nuova! Quel tipo di sguardo di uno che ha appena vinto alla lotteria o ha appena saputo che la playmate del mese lo vuole sposare. Per i successivi 10 giorni il Mario felice spese le vacanze su internet, mentre la moglie, da me saggiamente consigliata, aveva trovato delle altre sciure milanesi e non assillava più il Mario. La sera rivedevo il Mario alla brasserie mentre cenava con moglie e prole, e faceva il padre-marito-maschio felice (tempo investito, 4 ore al giorno). Prima di partire il Mario mi ringraziò e i diede pure la mancia (10 euro, il Mario era pur sempre un manager milanese, ma aveva il braccino corto di un genovese…).

Ok, l’ho fatta lunga ma la “sindrome del manager in vacanza”, pur con i social media e internet ormai ubiqui, è ancora oggi presente. Oggi la chiamiamo Fomo (Fear of missing out) ma cambia poco o nulla. Il/la manager che passati i primi 5 giorni di agognato relax si ritrova nella palude di dover gestire cose e persone che, di solito, vede solo la sera, per cena e nei weekend (ok, con lo smart working le cose son un po’ cambiate… infatti i divorzi paiono aumentare) e in più si sente perso senza la sua sfera sociale lavorativa.

La realtà che nessun/a manager ammetterà mai è che in vacanza, passati i primi giorni, ci si annoia. Il manager moderno tuttavia conosce anche i rischi di lavorare mentre sta in vacanza. L’essere riassorbito di nuovo nei casini dell’azienda.

Quindi si solito il Mario di turno (o la Maria, non faccio distinzioni di sesso) si ritrovano a oscillare su quella sottile linea rossa che divide la vacanza dal lavoro. Non leggono la posta d’ufficio o i gli stream sulle chat di lavoro. Anche solo aprirle autorizza la spunta… Quindi si dotano di tonnellate di libri, fanno numerose sortite su LinkedIn per controllare cosa succede, magari scrivono qualche post sul management (che leggono altri manager, in pratica se la dicono se la cantano tra loro).

In quest’ultimo anno, forse, tra le frequenti sortite su LinkedIn i Marii della situazione danno anche un occhio agli annunci di lavoro… che tra Covid e crisi non si sa mai.

La verità nuda e cruda è che la sindrome del manager in vacanza è generata da uno scarico di adrenalina (diciamo una sorta di astinenza) e non è facile disfarsene. In un mondo ideale il manager potrebbe rilassarsi del tutto, magari con un mese di distacco completo… ma non siamo in un mondo ideale.

Quindi il Mario/a della situazione, una volta trovato il suo ameno rifugio psicologico in vacanza, sistemati partner e figli/e, può concedersi il lusso di tenersi aggiornato via rete, leggere analisi intelligenti e aspettare paziente il ritorno in ufficio.

E voi? Fate come Mario/a?

Buone vacanze a tutti!

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