La nostra Europa

L’abbiamo costruita noi, manager e imprenditori grandi e piccoli, che più o meno consapevolmente abbiamo intrapreso la via dell’integrazione, senza attendere che fossero i governi a imporla

L’Europa è al centro del dibattito tra bocciature della manovra, sovranismi e bilancia del dare e dell’avere. Panebianco oggi sul Corriere riconduce il dibattito alla costruzione politica, ai pro e contro, al ritorno dei nazionalismi come contrappeso dell’integrazione.

Ma l’Europa che conosciamo, quella in cui viviamo ogni giorno, alla quale ha dato voce Ferrera pochi giorni fa, non è solo una costruzione giuridica.
È quella dei nostri figli che non hanno mai visto una frontiera interna, che hanno sempre usato euro e che forse ricordano le lire come i giocattoli dell’infanzia.

È quella delle nostre vacanze in Spagna o in Sardegna, come tante altre famiglie europee, parlando in italiano, spagnolo, inglese lontani dalla perfezione, di sport, cucina, amicizie, vita ed economia quotidiana non appresa nelle business school. I nostri figli che lavorano a Londra o a Parigi non sono diversi da quelli di noi che da Bologna o da Cagliari andavano a lavorare a Milano o a Roma: se noto una differenza sta nelle migliori capacità d’adattamento e nella minore attenzione al guadagno immediato.

Questa Europa quotidiana non è nata per caso, né ci è stata imposta dalla volontà di politici o burocrati. L’abbiamo costruita noi, manager e imprenditori grandi e piccoli, che più o meno consapevolmente abbiamo intrapreso la via dell’integrazione, senza attendere che fossero i governi a imporla. È stato sufficiente eliminare alcuni vincoli (e tanti pure ne rimangono), il resto lo abbiamo fatto con scelte organizzative, produttive, commerciali, finanziarie che progressivamente hanno fatto emergere ciò che abbiamo in comune. Oggi in Europa abbiamo organizzazioni, lingua, metodi, interessi geopolitici, impianto normativo largamente comuni.
Gli effetti non sono stati solo positivi, ma è ben difficile pensare che una politica di chiusura, particolarismo, lotte monetarie e commerciali avrebbero fatto di meglio. Sfido chiunque a dimostrarlo.

Abbiamo costruito tutto ciò nella libertà che i nostri governi ci hanno concessa. E non è stata poca. In altre parti del mondo la crescita, più impetuosa per il ritardo accumulato dalle generazioni precedenti, è avvenuta a prezzo della libertà. Non abbiamo perduto le nostre radici: ogni angolo d’Europa mantiene la sua orgogliosa identità e sono convinto che con un po’ d’impegno potremmo ridare vita anche a luoghi e comunità periferici e massificati, la cui eventuale efficienza mostra oggi un volto problematico. Rimaniamo orgogliosamente campanilisti nello sport, nella cucina, nel modo di comunicare.

Abbiamo amministrato, e tuttora lo facciamo ogni giorno, con i nostri limiti, un continente ricco di valori e di storia, senza pretenderne la proprietà. Abbiamo archiviato i periodi storici in cui dominavano i sovrani e decidevano le sorti dei popoli.

Le forze politiche che si oppongono al completamento dell’integrazione europea percepiscono che solo un’azione, non dico violenta, ma certamente aggressiva, può fermarla, almeno per un po’. Tutto il continente, a tutti i livelli sociali, si è ormai abituato a questa libertà e la considera così scontata da dimenticarsi di doverla difendere.

L’integrazione non è completa e sono ancora troppo carenti i meccanismi solidaristici, non tra paesi generici, ma tra le persone reali, a dispetto di un welfare ricco e abbondante, che in qualche caso ha creato però squilibri inattesi. La difficile soluzione non sta nel ritorno degli stati nazionali, ma nel recupero di legami di comunità in ambiti più limitati, più vicini alle persone, in un quadro comune di regole e strumenti.
Siamo tra i milioni di persone, di ogni livello sociale, che vivono tutto sommato bene nella Casa Europa. Abbiamo qualche responsabilità in più per il modo in cui l’abbiamo costruita e anche per come potremmo restaurarla e ammodernarla.
Alla chiamata di chi vuole migliorarla – evitando una nuova epoca di lotte tra sovrani (anche di quelli legittimati dal popolo) – rispondiamo con entusiasmo, non per scongiurare ogni inutile e insensato ritorno al passato. Per guardare a costruire consapevolmente il nostro futuro.

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