La necessità di una (nuova) rivoluzione umanista

In Italia economia e lavoro hanno bisogno di rivalutare la centralità dell’uomo, la sua capacità di scegliere e generare

Negli ultimi vent’anni l’avanzata della prospettiva del nuovo modello economico, chiamato “Quarto capitalismo” o “Economia della conoscenza”, si è accompagnata a una serie di crisi. I passaggi di fase comportano sempre situazioni di crisi, fino a quando non si definisce un nuovo ordine. La crisi finanziaria del 2008, seguita da quella occupazionale del 2012, unita alla preoccupante situazione ambientale e, infine, alla pandemia da Covid-19, mostrano una lunga transizione non ancora compiuta. Il tentativo di dare un assetto alla quarta fase del capitalismo moderno si scontra con una turbolenza continua nello scenario geopolitico, in cui l’avanzata della Cina, la difficile difesa delle posizioni acquisite da parte delle nazioni europee e degli Stati Uniti si affiancano ai tentativi espansionisti di nazioni come la Turchia e la Russia, desiderose di riprendersi gli spazi perduti dal declino dei loro imperi. In questa situazione il rischio di passare dalla crisi al caos è evidente, con il timore che la connotazione globale della politica e dell’economia, che fa sì che nessun popolo da solo possa essere artefice del proprio destino, renda caotica la prossima condizione del pianeta, nella ricerca di un nuovo ordine mondiale ancora lontano dalla sua piena realizzazione. 

C’è bisogno di un cambiamento
Pur nella convinzione di come molto dipenda dalle condizioni dettate dalla geopolitica, soprattutto per quanto riguarda l’accesso alle fonti energetiche, e dalla necessità di rafforzare la svolta ambientale della produzione e del commercio, non si può ignorare che sia arrivato il tempo di un cambio di paradigma e che la forza politica dell’Occidente dipenda anche dalla capacità di cambiare alcune caratteristiche dell’agire economico, per promuovere diverse e migliori condizioni sociali. Le potenzialità del Quarto capitalismo non derivano solo dal cambiamento della tecnologia di riferimento e dal ruolo dei sistemi digitali e dell’Internet delle cose nei fattori economici: è importante considerare anche altri elementi colti dalla logica delle riforme legate al Pnrr, che devono però ancora trasformarsi in scelte di fondo da parte della politica, delle imprese e del management italiano.

La condizione del nostro Paese è quella di essere una nazione chiamata a produrre ed esportare beni e servizi di qualità. Questo modello impone riforme in grado di rimettere sul mercato della concorrenza e della trasparenza tanti settori, soprattutto quelli legati ad appalti pubblici e convenzioni

Italia: il caso specifico
Se la condizione a cui è legato il nostro Paese è quella di essere una nazione chiamata a produrre ed esportare beni e servizi di qualità, per trarne benefici è necessario percorrere questa strada senza tentennamenti. Questo modello impone riforme in grado di rimettere sul mercato della concorrenza e della trasparenza tanti settori, soprattutto quelli legati ad appalti pubblici e convenzioni, che rischiano di creare rendite vantaggiose a danno dei cittadini, del libero mercato e della qualità dei servizi. Va poi definitivamente abbandonata la lusinga della quantità, dimensione dell’economia che non determina ormai da anni una corrispondente redditività. Ne è un chiaro esempio il mercato del turismo, in cui il fenomeno prevalente del mordi e fuggi (la maggior parte dei visitatori delle maggiori città turistiche italiane ormai non soggiorna nemmeno una notte nella città visitata) ha indebolito le basi di un settore per il nostro Paese molto importante e meno vantaggioso di quanto potrebbe. In questa prospettiva diventa determinante il ruolo che può svolgere il terziario avanzato e il sistema dei servizi, in particolare quelli alle imprese.

Il salto di qualità che si rende necessario impone la diffusione di una maggiore cultura manageriale e un’evoluzione del terziario che, grazie anche alla prospettiva della domanda di digitalizzazione e dei servizi per la sostenibilità ambientale, possa stimolare dinamiche di sviluppo e non solo di mera crescita. Le aziende italiane più deboli sui mercati e meno in grado di produrre valore aggiunto hanno spesso a che fare con realtà in cui la cultura organizzativa e manageriale è quasi del tutto assente.

Queste situazioni sono presenti ovunque, ma persiste, proprio nel settore più importante per il lavoro italiano, un deficit di considerazione della centralità della cultura manageriale, della valorizzazione del capitale umano e della funzione del benessere organizzativo per la produttività e lo sviluppo. La ricostruzione post-Covid dell’economia italiana impone la scelta della qualità e del mercato globale. Le carte che il nostro Paese può giocare in questo campo sono molte: sia per via della nostra reputazione come nazione in grado di produrre beni e servizi di valore, sia per via della nostra storia. Diventa allora centrale passare da un sistema economico guidato dal mero obiettivo finanziario, in cui tutto ciò che si produce e si consuma serve solo a produrre e consumare denaro, a un paradigma in cui accanto ai fattori economici sia preso in considerazione il fattore umano. Quello che è stato l’obiettivo del più innovativo imprenditore italiano del secolo scorso, Adriano Olivetti, deve poter diventare il criterio con cui rilanciare l’economia italiana sul mercato mondiale.

Promuovere il cambiamento, ma come?
Per questo motivo, spinti dall’uso corretto delle risorse del Pnrr, diventa fondamentale riprendere a investire nel capitale umano delle giovani generazioni, nella riqualificazione dei disoccupati, nell’attivazione al lavoro, nel benessere organizzativo, nella promozione delle migliori esperienze del governo locale, dell’economia civile, della solidarietà come fattore economico e di quelle eccellenze produttive che hanno generato uno stile tanto apprezzato quanto copiato. Bisogna smettere di fare dei nostri territori campi utili a imprese predatorie: restano fino a quando ci sono condizioni per incrementare profitti e poi se ne vanno come fanno le mandrie per abbeverarsi altrove, lasciando il deserto. Invece, c’è bisogno di far crescere, con la coltivazione dei saperi diffusi e originali delle nostre identità territoriali, delle imprese che sappiano agire e reagire, proprio come fanno le piante, con robuste radici piantate nella terra, da cui prendono energia generando ossigeno e opportunità che restituiscono al territorio. La sfida diventa quindi quella di dare un’etica civile all’economia. È questa la grande opportunità che la nuova stagione del capitalismo globale offre all’Italia.

Il nuovo Rinascimento
Si deve diffondere la consapevolezza che ogni nazione ha un destino dato dalla sua storia e dalla sua geografia e che l’Italia di oggi, se vuole rinascere, deve produrre un nuovo Rinascimento che, come tutti i rinascimenti che abbiamo vissuto, parte da una rivoluzione umanista, ossia dalla ricomposizione di politica ed economia intorno alla centralità dell’uomo e della sua capacità di scegliere e generare. La sfida è soprattutto politica, perché lo spazio necessario per poter promuovere questo cambio di paradigma appartiene a quel poco di potere che resta alla politica, nazionale ed europea, per definire l’assetto dell’economia. Non si tratta di chiudere o di fare protezionismo, ma di migliorare i servizi per selezionare i prodotti, le aziende, i clienti, nella prospettiva della qualità. Il fatto che l’Italia, che rappresenta il 3% come quota del mercato mondiale, detenga il 30% (se consideriamo anche i marchi italiani controllati dai gruppi esteri) della produzione ed export di beni di lusso, fa capire come quella del bello e del ben fatto sia la vocazione necessaria da percorrere per la ripresa.

Diventa fondamentale riprendere a investire nel capitale umano delle giovani generazioni, nella riqualificazione dei disoccupati, nell’attivazione al lavoro, nel benessere organizzativo, nella promozione delle migliori esperienze del governo locale e dell’economia civile

Tuttavia, perché questo si compia fino in fondo, non basta una politica nazionale in grado di seguire le indicazioni dell’Unione europea negli investimenti e nella sfida per la qualità dei sistemi economici e sociali. Serve anche un mondo che sia aperto, in cui i muri siano sostituiti dai ponti. Una nuova guerra fredda rischia di danneggiare l’Europa e, in particolare, rischia di compromettere l’Italia, un Paese che ha saputo sempre dialogare con l’Est, area del mondo da cui arriverà, nei prossimi anni, il maggior aumento della domanda di beni e servizi made in Italy. Non possiamo ignorare che le condizioni migliori per far sviluppare l’etica nelle scelte economiche e la responsabilità sociale e ambientale sui mercati sia quella di un mondo pacificato, che non alimenta tensioni e conflitti. 


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