Qual è la missione della Fondazione Agostiniani nel mondo e in che modo si distingue dalle tradizionali attività di beneficenza?
«La Fondazione è nata nel dicembre 2014 con l’obiettivo di sostenere e aiutare a sviluppare le opere sociali dei missionari e delle missionarie agostiniani, che sono presenti in più di 50 paesi del mondo. Siamo una Fondazione sicuramente giovane e piccola, ma essendo la Fondazione dell’ordine di Sant’Agostino possiamo dire che abbiamo 750 anni di storia alle spalle. Inoltre, lavorando con i missionari, abbiamo la possibilità di essere presenti nei diversi paesi indipendentemente da fattori che invece condizionano altre organizzazioni internazionali. La presenza dei missionari è una scelta prima di tutto pastorale, che poi diventa sociale. Noi appoggiamo, cerchiamo di strutturare e di migliorare la loro professionalità in campo sociale».
Come definirebbe il vostro approccio allo sviluppo: quali sono i principi che guidano le vostre azioni?
«Pratichiamo la cosiddetta sostenibilità sociale e istituzionale attraverso una strategia che unisce gli aspetti della charity a quelli dello sviluppo. La presenza quotidiana dei missionari garantisce che i progetti derivino da necessità concrete e diventino effettivamente parte della struttura sociale ed economica di un luogo: noi accogliamo le richieste della gente locale e le trasformiamo in un progetto strutturato con un budget, un cronogramma, un monitoraggio… e strutturando la professionalità e dei missionari e dello staff locale».
Spesso si confonde la solidarietà con la beneficenza. Qual è, secondo lei, la differenza sostanziale tra fare charity e promuovere sviluppo?
«La seconda non è strategica: non si può impostare una strategia nel medio-lungo termine sulla charity pura, sulla donazione pura, perché oggi c’è e domani potrebbe non esserci. Invece, creare un sentimento solidaristico ha un impatto educativo: abbiamo sostanzialmente la garanzia che, se questo diventa strategico nel medio e lungo periodo, ci sono le basi per poter sviluppare i progetti».
Perché è importante superare la logica dell’assistenzialismo e puntare su progetti che generino autonomia e crescita nei territori?
«L’assistenzialismo ha senso nell’emergenza: se una persona ha bisogno, la prima cosa da fare è aiutare. Poi, però, bisogna capire e risolvere il problema che ha ridotto quella persona a chiedere aiuto. Inoltre, l’assistenzialismo non permette di restituire un ruolo sociale ed economico alle persone, cosa che invece è fondamentale nei progetti di sviluppo. Molti di coloro che aiutiamo si sentono semplicemente degli emarginati e vivono la loro emarginazione quasi come una colpa; quando invece facciamo capire loro che possono avere un ruolo importante per lo sviluppo dell’intero paese, allora sì, si riescono a costruire tante cose».
In che modo il non profit può essere motore di innovazione e non solo di supporto emergenziale?
«Siamo sostanzialmente costretti a essere degli innovatori, perché il taglio dei fondi, soprattutto pubblici, è evidente e quindi dobbiamo inventare ogni volta una soluzione diversa a dei problemi che, pur restando sempre quelli, evolvono – la povertà si evolve come qualsiasi altra cosa. Non possiamo dare delle risposte che davamo vent’anni fa ad un problema che oggi si è evoluto: dobbiamo analizzare molto bene il territorio, trovare delle strategie nuove, adattando la nostra esperienza ai contesti locali».
Come possono collaborare enti non profit e mondo profit per creare progetti di sviluppo sostenibile?
«È necessario rispettare i ruoli: l’operatore umanitario non deve fare l’imprenditore e l’imprenditore non deve fare l’operatore. Dobbiamo valorizzare quelle che sono le nostre professionalità e creare un modello di sviluppo dove il business aiuta effettivamente la crescita del territorio. L’approccio assistenziale, la donazione del mondo profit non servono: serve una sinergia, una collaborazione reale a livello proprio progettuale».
Può raccontarci un progetto della Fondazione che rappresenta bene questa visione di sviluppo e non di semplice assistenza?
«A Kinshasa, in Congo, abbiamo realizzato una scuola (che oggi ospita oggi ospita 2500 bambini e bambine) con un programma di contrasto al lavoro minorile, un fenomeno che lì coinvolge purtroppo circa 8 milioni di bambini (40%). È un fenomeno che nasce dalla povertà, dal fatto le famiglie hanno effettivamente bisogno dei soldi che i bambini portano a casa, anche se piccoli. Allora abbiamo deciso che nel programma di contrasto non eroghiamo un contributo per mandare i bambini a scuola, ma sosteniamo la stabilizzazione economica delle famiglie, cioè degli adulti, in collaborazione con l’imprenditoria locale. Andiamo dagli imprenditori e gli diciamo “hai bisogno del giardiniere, del guardiano, di chi fa le pulizie… te li offriamo noi”. Abbiamo creato delle cooperative professionalizzate con la divisa, abbiamo formato il personale e paghiamo il 50% dello stipendio per tre mesi. E l’imprenditore è rimasto stupito, perché invece di andare a chiedere aiuto, siamo andati a proporre un servizio».
Quali risultati concreti avete ottenuto e quali insegnamenti ne avete tratto?
«Una di queste cooperative è composta interamente da personale femminile: 25 donne, tutte madri di bimbi lavoratori, quindi oggi ci sono tra i 25 e i 50 bambini in più che vanno nella nostra scuola. Complessivamente, l’anno scorso abbiamo raggiunto e beneficiato circa 25.000 persone. Quello che abbiamo imparato dall’esperienza di poc’anzi è l’importanza di ascoltare, di calarsi nei problemi locali e non limitarci ad analizzare semplicemente con i nostri standard “occidentali”. Voglio dire, è vero che “non è giusto che i bambini vadano a lavorare”, ma in questo caso lo fanno per un motivo. Capito il motivo profondo, si può pensare a una soluzione».
Lei è, di fatto, un manager: quale pensa sia il ruolo dei manager nel guidare processi di sviluppo e sostenibilità, anche nel non profit?
Sì, è molto simile alla figura del manager del profit, nel senso che noi dobbiamo tenere sotto controllo l’aspetto economico, quello sociale e quello di sviluppo aziendale. Monitorare, con una valutazione dell’impatto, quello che facciamo è quindi molto importante, anche perché lavoriamo con soldi pubblici. Insomma, abbiamo procedure molto complesse da seguire e il manager deve fare questo: tenere sotto controllo tutto».
Guardando al futuro, quali sono le sfide più grandi per il non profit nel coniugare solidarietà e sviluppo?
Secondo me una delle sfide più grandi è trovare proprio dei momenti di co-sviluppo con il mondo profit, perché il futuro è quello. Dobbiamo riuscire a mettere insieme queste due realtà, che a guardar bene, poi, si assomigliano anche molto».
Quale messaggio vorrebbe lanciare alle imprese e alle istituzioni per costruire insieme un modello di crescita inclusivo e sostenibile?
«Mi ripeto: riconoscere che in Italia ci sono tanti professionisti distribuiti tra profit, no profit e istituzioni pubbliche che debbono trovare dei momenti di dialogo e di co-progettazione. E credo che siano le istituzioni pubbliche a dover assumere questa responsabilità. Ad oggi, invece, questi momenti sono frutto di slanci dati dalla sensibilità dei singoli: non c’è strategia, non c’è struttura, non c’è visione. Forse perché ci stiamo ancora un po’ prendendo le misure a vicenda».
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