Il mondo allo specchio

La storia non è finita, come sosteneva Fukuyama, e la geopolitica ancor meno, come ci dice in questa intervista Dario Fabbri, giornalista, analista geopolitico e direttore della rivista Domino. Il tutto ci interessa come cittadini, lavoratori e manager, perché incide sul presente e ancora più sul futuro delle nostre vite personali e professionali, singole e collettive

Mai come in questi ultimi anni ci siamo resi conto che molto di ciò che davamo per scontato in realtà non lo è affatto. Le guerre non sono mai finite, ma ora ne abbiamo una alle porte di casa. La globalizzazione ha caratterizzato gli ultimi trent’anni con i suoi pregi e difetti, ma oggi non ci garantisce più quel flusso di beni e servizi e quell’espansione produttiva che ritenevamo scontati e in aumento fino a ieri.

Nel mondo, stanno emergendo voci e protagonisti vecchi e nuovi che inevitabilmente stanno cambiando lo scenario economico e sociale globale. Pertanto, è opportuno fare il punto sulla geopolitica, la disciplina che studia i rapporti tra i fattori geografici e le azioni o le situazioni politiche. Anche perché tutti questi accadimenti influiscono e influiranno sempre più sul nostro futuro a livello sociale ed economico. Ne parliamo con Dario Fabbri, giornalista, analista geopolitico e direttore della rivista Domino, volto conosciuto e voce autorevole, per comprendere e analizzare gli accadimenti in atto e le loro implicazioni future.

Partiamo dalla patata bollente: la guerra in Ucraina. Quali gli sviluppi futuri?

«Fare ipotesi in questo momento sulla guerra in Ucraina è molto difficile. Non le stanno facendo neppure i principali attori coinvolti. Tuttavia, possiamo evidenziare alcune novità e certezze, concentrandoci su due aspetti chiave. In primo luogo, c’è l’atteggiamento degli Stati Uniti, che negli ultimi due mesi, cioè dall’episodio del fallito golpe della Wagner, hanno modificato il loro approccio a questa guerra. Una delle preoccupazioni principali è la possibilità di vedere la Russia sprofondare nel caos e quindi l’ipotesi di doversi occupare direttamente del paese e dell’arsenale atomico più grande del mondo. A quel punto, ci sarebbe il rischio di una guerra tra bande, repubbliche etniche e così via. Un quadro per nulla rassicurante che richiederebbe un impegno totale, costringendo gli Stati Uniti a concedere campo libero alla Cina altrove. Dal fallito golpe della Wagner e dal visibile caos che ne sarebbe derivato, gli americani si sono messi in testa che questa guerra dovrebbe avviarsi verso un cessate il fuoco nei prossimi mesi».

E l’altra certezza?

«Un altro elemento a cui faccio riferimento è il finora sostanziale fallimento della controffensiva ucraina, che non è un dettaglio secondario. Gli Stati Uniti, attraverso i loro canali ufficiali e i principali mezzi di comunicazione, da tempo dicono che la controffensiva sta andando male e che non si riusciranno a raggiugere gli obiettivi prefissati. Si tratta di un modo neppure troppo velato per dire a Kiev che non c’è altra soluzione che sedersi a un tavolo negoziale. Sul cessate il fuoco, anche la Russia sarebbe d’accordo, l’Ucraina per ora molto meno. Poi resta da capire che forma e sbocchi potrebbero avere tregua e negoziati, ma al momento è oggettivamente difficile prevederlo».

La guerra in Ucraina ha reso palese e accentuato una divisione “Occidente vs Oriente” che pensavamo sopita. Quali i possibili sviluppi futuri?

«Questa guerra sta avendo una rilevanza strategica nell’integrazione sempre più stretta della Russia nel campo cinese come socio di minoranza. Uno sviluppo obbligato per la Russia e per nulla funzionale agli interessi Usa. È anche per questo che gli americani vorrebbero interrompere la guerra, per evitare di trovarsi con due nemici principali: Russia e Cina. In questa guerra, che può essere considerata come uno scontro tra Occidente e Oriente, il fatto che Russia e Cina si avvicinino rappresenta una situazione scomoda è sconveniente non solo per la Russia, ma anche per gli Stati Uniti e l’intero l’Occidente. Riguardo alla contrapposizione tra Occidente e Oriente, come l’abbiamo definita noi su Domino, c’è un mondo contro, ovvero c’è una maggioranza dell’umanità che non ha per nulla in simpatia l’Occidente. Questo è dimostrato dai voti all’Onu sull’aggressione russa all’Ucraina, quindi da quei paesi che si sono astenuti o addirittura hanno votato a favore di Mosca e che rappresentano a spanne la maggioranza dell’umanità». 

Questo cosa vuol dire?

«Vuol dire che c’è un non Occidente, che lo definisce meglio di solo Oriente, che anziché porsi la questione morale della guerra in Ucraina preferisce stare dalla parte della Russia, perché ha in odio l’Occidente e tutto ciò che rappresenta e ha rappresentato. Un esempio eclatante è quello di Cina e India, che insieme fanno circa 3 miliardi di esseri umani: in questa guerra i due paesi si sono schierati con la Russia, rimarcando questa spaccatura. Credo che questa guerra abbia messo in evidenza questa distinzione, riflessa proprio nell’allargamento annunciato dei Brics, che dal prossimo gennaio faranno entrare l’Etiopia, l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e l’Argentina. Questo allargamento sta coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone, che ha circa il 40% del pil mondiale». 

Capito che la storia non è finita come prospettava Fukuyama, quali i principali scenari futuri?

«Lo scenario principale verte sulla competizione tra Stati Uniti e Cina, che di fatto con questa guerra nei prossimi anni si intensificherà e costringerà quasi tutti, se non tutti, i paesi del globo a schierarsi da questa o dall’altra parte, cioè a scegliere inevitabilmente da che parte stare. Questo sta già avvenendo, ma nel medio periodo l’intensificazione sarà maggiore e si potrebbe passare da una guerra commerciale già in atto a un conflitto vero e proprio, anche se speriamo non accada. Nella sfida agli Stati Uniti la Cina è comunque costretta, anche e soprattutto da una popolazione in veloce invecchiamento, ad agire in fretta, massimo nei prossimi 15 anni. Quindi è chiaro, e lo dico con discreta certezza, che il futuro dell’umanità, al di là della pace perpetua e della fine della storia sognate da qualcuno, sarà determinato dalla competizione fra Stati Uniti e Cina e da tutto il riverbero che questa avrà». 

Chi ha più da perdere in questa globalizzazione in veloce ridefinizione e nelle guerre commerciali già in atto?

«Ha nettamente più da perdere la Cina perché, più dell’Occidente, è un paese che dipende dalle esportazioni e, soprattutto, a differenza dell’Occidente, in senso allargato, non controlla totalmente la filiera tecnologica. Ci sono delle parti che tuttora mancano alla Cina e di cui ha necessità di attingere dall’Occidente. Ed è questo il gioco che gli Stati Uniti stanno perseguendo in questa fase, ovvero escludere la Cina dall’unica filiera davvero globale, cioè quella dei semiconduttori. Per esempio, se noi guardiamo all’Europa, solo i Paesi Bassi sono dentro la filiera dei semiconduttori e, non a caso, hanno avuto l’imposizione da parte di Washington di escludere ogni produzione che contenga quella parte di filiera di vendita verso la Cina. Aggiungiamo inoltre che in Cina le esportazioni avvengono in larghissima parte via mare e le rotte marittime sono controllate dalla Marina americana». 

Quindi la globalizzazione sta cambiando pelle? Cosa possiamo aspettarci?

«Sì, la globalizzazione sta cambiando pelle! Credo che questa espressione sia molto corretta. Anche perché si basa sulla realizzazione da parte statunitense di un unico mercato globale, alla fine della guerra fredda, attraverso il controllo dei mari. Perché il 90% delle merci girano via mare. Da allora questo è avvenuto senza grandi sussulti perché la Cina, cioè la fabbrica del mondo, come è stata ribattezzata dagli anni 90, ci è entrata a pieno diritto con l’ingresso nel Wto nel dicembre 2001. Lo ha fatto in modo graduale, partendo dalla parte bassa del valore aggiunto e accettando le regole scritte dal suo principale rivale. Ma da allora molte cose sono cambiate, la Cina non è e non accetta più di essere solo nella parte bassa del valore aggiunto e non accetta più regole e dominio delle rotte gestiti dagli Usa». 

Insomma, l’attrito è chiaro?

«Certo, questo è intollerabile per gli Stati Uniti, che invece vogliono mantenere il loro ruolo predominante, salvo qualche variazione, e comunque il loro ruolo di gestore della globalizzazione. Anche per questo sono molto impegnati a soffocare la contro globalizzazione che propone la Cina, che prende il nome di Nuove vie della seta. Queste non sono soltanto un progetto infrastrutturale, ma un tentativo di contro globalizzazione in salsa cinese. Non è un caso che, sebbene abbia più direttrici, quella principale sia quella terrestre, che va dalla costa della Cina all’Europa. Quindi, in bocca al lupo. La Cina immagina di sfuggire così al dominio americano sui mari. E proprio per questo gli americani oggi impongono per l’Italia una scelta di campo, per cui diventerà sempre più difficile per un paese occidentale aderire, come noi abbiamo fatto nel 2019, alle Vie della seta».

Sarà una contrapposizione, un’alternativa vera e propria?

«Ecco, in tutto questo, cioè nel futuro della globalizzazione che ci sarà, che cambierà pelle, ci potranno essere due globalizzazioni. In quella che abbiamo conosciuto fino ad oggi non vedo una vera contrapposizione, perché tutti i paesi dei Brics, dall’India in poi, sono ampiamente dentro la globalizzazione americana e non ne vogliono uscire. Non se lo possono permettere. Sono dipendenti. Ci può essere poi la creazione di una balcanizzazione della globalizzazione da parte cinese, ma è molto difficile immaginare una globalizzazione perfettamente alternativa e paritaria. Non credo accadrà».

Dobbiamo ritenere che la geopolitica e la globalizzazione che stanno cambiando saranno un freno a un futuro ulteriore sviluppo economico?

«In piena contrapposizione tra il numero uno e il numero due, cioè tra Stati Uniti e Cina, lo sviluppo ne andrà per forza risentendo. Poi, purtroppo, le guerre guerreggiate si continuerà a farle lo stesso, anche perché credere che siano solo commerciali è un’illusione tutta dell’Europa occidentale. Gli americani continuano a farle ovunque nel mondo, senza mai smettere, ma avvengono, e avverranno, ahinoi, scontri anche con grandi potenze, come ad esempio quello in Ucraina. Quindi sì, tutto questo riduce lo sviluppo. Anzi, il rischio è che dalla guerra commerciale si passi, speriamo di no, a una guerra guerreggiata».

Quanto pesano le carenze di leadership a livello globale nelle distorsioni della globalizzazione e nell’accentuarsi della contrapposizione politica e culturale tra Occidente e Oriente?

«Nello scenario globale non riconosco un grande peso dei leader, ma questo per mia deformazione. Credo che i leader spesso fungano da parafulmine, perché ci sono situazioni molto complesse che, come sappiamo, non sempre hanno una soluzione ma non lo vogliamo accettare. Per esempio, la terribile e luttuosissima guerra in Ucraina viene da molto lontano, è nella testa dei russi pressoché da sempre, perché da sempre giudicano l’Ucraina in quel modo. Certo, forse poteva esserci un leader migliore di Putin, che, sia chiaro, aborro, ma non credo non sarebbe accaduto, prima o poi. Però spesso i leader hanno un peso secondario relativo da questo punto di vista, perché esistono a mio avviso situazioni complesse, aggregate, sui quali i leader hanno più un’influenza nella nostra testa, appunto come parafulmine, che è nella realtà della storia e delle cose. Lo facciamo un po’ ingenuamente, un po’ con dolo, cioè attribuiamo ai leader capacità e colpe che a volte non hanno e che loro si prendono perché sono anche dei “furbacchioni”. Ma, appunto, su questo tema io non riconosco un peso così eccessivo ai leader. Anche Gorbaciov, da noi considerato un grande leader, per i russi è il peggio del peggio: dal loro punto di vista ha svenduto all’Occidente il momento più alto dell’impero russo».

Quanto possono fare le popolazioni per incidere su un futuro economico, culturale ecc. “aperto” e non chiuso?

«Le popolazioni sono il rovescio della medaglia dei leader. Proprio le popolazioni, intese come aggregazioni umane, definiscono sempre il loro destino e il loro futuro nei limiti delle loro possibilità, cioè dei mezzi che hanno a disposizione. Le popolazioni non occidentali non hanno nessun interesse per una società aperta, idea irricevibile perché dominata dagli Stati Uniti e dall’Occidente. Vogliono dominare il sistema internazionale. Non vogliono vivere nel benessere, che è comunque un desiderio senile. Sono società molto giovani, con un’età media molto bassa. Vogliono sostituire gli Stati Uniti in cima al pianeta. Ed è ciò che persegue, ad esempio, un paese strampalato ma giovanissimo come l’India, con i mezzi che ha a disposizione, ma parzialmente anche l’Iran, la Turchia, la Russia e potrei proseguire. Quindi, dipende sempre dal proprio punto di vista, cioè immaginare che una società aperta sia il fine ultimo. Quella che noi chiamiamo società aperta è il mondo dominato dagli Stati Uniti, che ovviamente finirà, come tutte le egemonie, e molte popolazioni in giro per il mondo ne vogliono la fine. Se l’obiettivo è porre fine a una società aperta, ma prendendone il potere, loro lo sottoscrivono. Noi, io personalmente, no. Preferisco l’Occidente, preferisco questa parte di mondo. Mi pare però evidente che ci sono altre popolazioni più giovani a Oriente che vogliono scalzare gli Stati Uniti e governare il pianeta».

E i manager non dovrebbero avere più attenzione verso la geopolitica e i suoi risvolti economici?

«Tutti dovremmo dare più attenzione alla geopolitica, a partire dai politici e, certo, dagli imprenditori e dai manager. È soprattutto importante capire e mettere in conto che di fatto tutte le grandi potenze del pianeta, anche quelle occidentali, non agiscono in modo economico, anzi, agiscono tutte in modo antieconomico: vogliono la potenza tout court, anche pagandone le conseguenze. Per fare un esempio più semplice e vicino, la Brexit stessa sul piano economico non è un successo: nella testa degli inglesi serviva per altri obiettivi. Quindi, dobbiamo cominciare a immaginare e pensare che non tutto è regolato dall’economia, ma spesso lo è dal suo contrario, da ciò che è antieconomico e questo in Italia è letteralmente incomprensibile. Infatti, un mondo come quello attuale non riusciamo proprio a decrittarlo».


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