Si parla da tempo di ecofashion. E sono molti i marchi che hanno abbracciato la filosofia green. Spesso ciò è avvenuto in maniera pretestuosa, in un’ottica di mera comunicazione. Proprio per descrivere tale approccio – basato sull’adesione solo apparente ai principi della sostenibilità – è stato coniato il termine greenwashing. Una strategia, quella del greenwashing, che se in passato poteva magari funzionare, allo stato attuale risulta rischiosa. Oggi infatti i consumatori, o almeno alcune fasce, sono più consapevoli e non si fanno così facilmente “obnubilare” dalle campagne green.
In questo percorso un ruolo importante è svolto dalle associazioni ambientaliste. Grazie alle loro attività di comunicazione – talora disruptive – contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto ambientale della produzione di abbigliamento. Un esempio interessante è rappresentato da Greenpeace, le cui campagne Detox hanno via via messo in luce gli effetti nocivi dell’industria del fashion sul pianeta. E sull’uomo! Molte sostanze contenute negli abiti (ftalati, formaldeide, metalli pesanti, solventi, coloranti) rischiano di danneggiare anche chi li indossa. Come? Possono, per esempio, causare patologie dermatologiche oppure interferire con il sistema endocrino. Un aspetto al quale sinora i consumatori non hanno prestato particolare attenzione…