Il futuro del lavoro: l’opinione di Marco Bentivogli

Il punto di vista del segretario generale della Fim Cisl su trasformazione digitale, welfare, sindacati, ruolo dei manager. Bentivogli sarà uno degli ospiti del Congresso di Manageritalia e interverrà nella tavola rotonda sul tema Sindacato a KmZero, venerdì 15 novembre

Le nuove tecnologie impongono un forte ripensamento del lavoro?
Le persone saranno sempre più “ibridate” in un rapporto virtuoso e progettuale, e non più fordista, con la macchina, ma ogni innovazione trasformatrice è all’inizio una devianza dagli schemi di partenza. Il pericolo è che la nostra percezione della realtà sia invece filtrata attraverso le lenti con cui abbiamo letto il Novecento. Non è detto, infatti, che le 8 ore di lavoro classiche suddivise in 40 settimanali e in 1.760 annue saranno ancora il modello dell’industria tecnologica dei prossimi anni. Nuovi tempi e spazi di lavoro consentiranno una maggiore conciliazione con la vita di ciascuno.


Come vede, anche a questo riguardo, il mondo del lavoro oggi in Italia?

L’Italia è un paese anti-industriale affetto da iperideologizzazione, giustizialismo e sindrome del no, con effetti molto pesanti sul lavoro e sulle nostre politiche economiche e sociali. Il decreto anti-delocalizzazioni non è servito. Si delocalizza non perché abbiamo un costo del lavoro elevato – i nostri metalmeccanici sono i migliori al mondo – ma perché ci sono costi legati, carenza di infrastrutture, una burocrazia asfissiante e una politica schizofrenica a livello locale quanto nazionale (un caso su tutti l’ex Ilva di Taranto, oggi ArcelorMittal) e un sistema giudiziario lento e inefficiente. L’Italia avrebbe bisogno di una classe politica capace di immaginare il Paese tra 30, 50 anni e non alle prossime elezioni. Personalmente penso che ce la possiamo fare, conosco centinaia di aziende che nonostante “l’ecosistema paese” lottano e ce la fanno. Le nuove tecnologie, a partire dall’AI, possono dare un contributo determinante.

Cosa dobbiamo cambiare?
Investire in formazione e tecnologia, contrastando la resistenza all’innovazione, con politiche che guardino il cambiamento. I governi italiani degli ultimi vent’anni sono stati molto carenti in questo senso, tranne qualche rara eccezione come il Piano Industria 4.0 promosso dall’ex ministro Calenda e dei provvedimenti sull’alternanza scuola-lavoro. Mi sono occupato di innumerevoli vertenze negli anni della crisi. Solo nel mio settore sono stati persi oltre 600mila posti di lavoro. I fattori sono innumerevoli ma è stata determinante l’assenza di investimenti nelle nuove tecnologie. Per invertire la rotta servono investimenti, ma soprattutto un cambio di mentalità. In questo senso la formazione e l’educazione saranno fondamentali.

Ha ancora senso avere una netta distinzione tra lavoro dipendente e autonomo?
Non avrebbe più senso ragionare sul concetto di lavoro organizzato e dare a tutti un welfare minimo pur mantenendo flessibilità e decentralizzazione organizzativa?
Bisogna guardare a contratti smart e ibridi che siano capaci di tutelare le persone e garantire al contempo la funzionalità dell’impresa. Pensiamo, ad esempio, alla logica delle learning organization, uno strumento che consente di passare dal lavoro subordinato, in cui contano luoghi e orari, alla formula dell’apprendimento organizzativo che pone al centro la persona con i suoi risultati e le sue competenze, pienamente in linea con l’evoluzione in senso digitale. A livello di contrattazione possiamo fare ancora molto attraverso gli accordi aziendali. Negli ultimi anni abbiamo lavorato a fondo e realizzato importanti contratti che guardano al futuro del lavoro, dallo smart working ai big data. 

Come adeguare il welfare, quello europeo pubblico e privato, ai cambiamenti in atto?
Sicuramente la chiave di volta per non lasciare nessuno dietro e per ritrovare una dimensione alta del lavoro è quella della conoscenza e della partecipazione a ogni livello. Bisogna lavorare in questa direzione a livello nazionale ed europeo e avere più attenzione a un welfare integrale e intelligente, puntare sul lifelong learning e valorizzare il potenziale delle persone anche attraverso sistemi di inquadramento professionale avanzati.

Come sviluppare un modello di apprendimento continuo che accompagni i lavoratori lungo tutto l’arco della loro vita professionale?
Nel Piano Industria 4.0, per fare un esempio, si parlava di formazione 4.0, cioè caratterizzata da evolute metodologie che integrino aule, formazione continua digitale a piccole dosi (da due a 5 minuti al giorno) con app dedicate, laboratori esperienziali e simulazioni, coaching, eventi. Insieme a Skilla di Franco Amicucci abbiamo lavorato su questo fronte e inserito delle proposte anche nella piattaforma del nuovo contratto. Ne abbiamo parlato nella due giorni (6-7 novembre) a Roma nell’ambito degli Stati generali della Formazione che abbiamo organizzato come Fim Cisl insieme ad esperti del settore, esponenti del mondo imprenditoriale e politico.

Qual è in questo contesto il ruolo dei sindacati di lavoratori e imprese?
Imprese, sindacato, scuola: ognuno deve fare la sua parte. Tra qualche anno molti dei lavori che oggi conosciamo non esisteranno più, altri saranno creati. La sfida è quindi traghettare il lavoro organizzato dentro le nuove realtà. Senza nascondere che oggi le grandi piattaforme tecnologiche come Google, Apple e Facebook sono “union free” e che in molte delle imprese più avanzate il ruolo del sindacato è marginale. Abbiamo ancora qualche anno di tempo per evitare di essere messi all’angolo. In queste trasformazioni il ruolo del sindacato diventa determinante, non solo come protettore del posto di lavoro, ma anche come promotore delle competenze del lavoratore del futuro: da job protector a skill developer, deve cioè occuparsi dello sviluppo della professionalità del lavoratore facendo diventare la competenza moneta intellettuale al pari del salario. A mio avviso le aziende che non fanno formazione generano esternalità negative e dovrebbero essere tassate.

Qual è il ruolo dei manager?
Purtroppo nel nostro paese il ruolo dei manager sconta in parte un’idea di mercato legata troppo all’assistenzialismo statalista tipico degli anni passati. Le nuove catene globali del lavoro impongono invece una visione più ampia e aperta del proprio ruolo. Fortunatamente non mancano esempi virtuosi. Sarà per questo fondamentale, anche qui, un grande investimento in termini di formazione di una classe dirigente capace di leggere e interpretare il cambiamento in atto, in questo università e scuole possono dare un grande contributo. 

Facebook
LinkedIn
WhatsApp

Potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca