Il film Il capo perfetto e la bruttezza della leadership

Una pellicola sulla gestione disfunzionale delle organizzazioni, tra figure simboliche di un’idea discutibile del potere e altre che fanno ben sperare

Di recente ho visto il film Il capo perfetto e ho capito qualcosa di più sul perché occorre paventare l’idea e la figura del “leader” anche quando sembra un dono. Il protagonista del film sembra essere uscito a pieni voti da una business school, ma è la sua interpretazione della leadership ciò che incanta, la materia che egli ha evidentemente studiato con il maggior profitto.

Il personaggio principale è il proprietario dell’impresa di famiglia, la Blanco Basculas: ne trasmette i valori alle persone che vi lavorano, si prende cura di loro e dei loro problemi personali, lenisce i contrasti con pacatezza pragmatica e preserva a tutto campo quell’eccellenza simbolizzata dal livellamento perfetto dei piatti di una bilancia – l’oggetto che poi è anche il prodotto dell’impresa, e, in un certo senso, la sua anima. Alla perfezione del capo – inconfondibilmente leader – corrisponde quella della sua impresa: linda, industriosa, coordinata, perfino tollerante e comprensiva nei confronti di chi sbaglia qualcosa.

Archetipi facilmente riconoscibili
Il punto di partenza della storia ha del mitologico. Il capo perfetto sta alla sua impresa come la dea Atena alla sua città protetta: è una fortezza fatta di intelligenza, astuzia e sapienza (a un certo punto cita in modo appropriato perfino il principio di indeterminazione di Heisenberg!); mentre la città è una sorta di famiglia-Stato, messa dentro una di quelle bolle di vetro a misura della mano del suo leader.

Tutta questa perfezione, poiché c’è già oppure perché si crede di averla, può “solo” essere difesa da ciò che la minaccia, nell’ambizione scontata di perpetuarla; né essa può fare a meno di riconoscimenti pubblici, oggettivi e periodici, se non addirittura continui (del resto, se la perfezione non è riconosciuta è perché in tutta probabilità non la si possiede, il che sarebbe davvero deprimente). È così che il duo Atena-Blanco da un lato governa e dall’altro difende la città ideale ai suoi piedi.

Ma che cosa congiura contro la perfezione in atto, di là da quel guazzabuglio informe e casuale di avversità in cui il capo perfetto invece sguazza? È possibile ri-conoscere qualche figura archetipica opponente? Sembrerebbe di sì, in accordo con l’autore de Il capo perfetto e con l’ausilio della psicoanalisi junghiana. Ne cito due. È facile riconoscere Afrodite nella sensuale, seduttiva e apparentemente amorale stagista, un archetipo capace di mietere vittime al suo solo apparire, a tutte le latitudini, in tutte le classi sociali e non necessariamente presso il solo pubblico maschile.

Si può inoltre intravedere Ares nello strafottente e vigoroso caporeparto che scalza il suo capo diretto dopo averne conquistato la moglie, e che se ne infischia della retorica familista propugnata da Atena. Il che cosa poi siano capaci di fare queste due “divinità” messe insieme, e non a caso amanti tanto nella mitologia quanto nel film, è tutto racchiuso in quel dito medio ben teso mostrato per scherno dalla stagista al nostro capo perfetto dopo averlo sedotto, e mentre se ne va via in moto con il suo Ares. Spicca, fuor di metafora, una gioventù naturalmente predatoria, che non sta al gioco, paternalista immanente al capo perfetto: essa esce allo scoperto, ricatta, scalza, rompe e irrompe facendo valere, sul suo piatto della bilancia, o la freschezza cognitiva o lo spirito di conquista, o entrambe le cose.

Sorprese e sabotaggi
Alla fine il leader soccomberà, ma non sarà a causa dei due giovanotti e in virtù di un vago schema edipico dei rapporti intergenerazionali nell’azienda: la convivenza con i giovani rampanti è sì conflittuale ma pur sempre possibile se si lascia loro spazio e potere (anche questo è insegnato nella business school), magari a spese di qualche collaboratore-seguace appannato (i.e. il capo della Logistica) o sostituibile con poco danno (i.e. il capo del Marketing). Il virus realmente aggressivo, quello che scardina la fortezza, non viene da fuori, è nel sostrato della città e, simultaneamente, nell’animo del leader (ahi ancora la fisica quantistica!). Questi non sa di non sapere molte cose che accadono nei sotterranei della sua organizzazione modello, tra cui relazioni clandestine, piccoli sabotaggi, informazioni non rivelate, errori strumentalizzati: sono sommovimenti intestini, celati da coloro stessi che li inducono, vuoi perché sentiti appartenere al proprio privato e al proprio residuo margine libertà, vuoi per non attirare i presunti strali del leader.

Tacere, sopportare, fingere e compiacere sono strategie da follower, utili se non inevitabili (fin) quando il corrispettivo leader è saldo in sella. Ma quando le cose vengono alla luce allora deflagrano; inoltre le sorprese si cumulano e non sono mai indipendenti l’una da un’altra, se non altro perché impegnano contemporaneamente il medesimo intelletto, quello del leader ovviamente, quasi fosse il reparto terapie intensive o la stazione dei pompieri. Non è detto che poi il leader medesimo sappia sempre pararle tutte tenendo il punto della perfezione, mentre è certo che proprio la sua posizione di leader altera, senza volerlo e senza poterlo evitare, quei fenomeni, a conferma di un corollario del principio di Heisemberg.

La leadership come modello di perfezione
Mi sono così avvicinato al punto da cui sono partito, quel fremito di sospetto e di timore che provo ogni volta che si parla e che si scrive di leadership intendendo in realtà un insieme di virtù e il carisma di qualcuno, dunque di una persona. Si scrive spesso “leadership” ma si legge sempre “leader”, essendo la prima un mero attributo del secondo oppure della seconda quando donna. Un’infinità di manager, in Italia dagli anni sessanta del secolo scorso, ha assorbito quest’idea per cui la leadership sia un tratto personale, cioè dell’Io individuale, e che in quanto tale essa sia la più desiderabile delle doti. Qui casca di nuovo l’asino della leadership incarnata e incastrata nell’Io, questa volta in modo (auto)distruttivo e irreparabile.

La storia di Blanco ci dice che bisogna stare molto attenti a ciò che desideriamo ardentemente, perché l’inconscietà e la creatività ci portano a intentare proprio quello. Se il culmine del desiderio è dimostrare, confermare e difendere l’essere leader attraverso la perfezione percepibile, agli occhi di terzi, della creatura guidata, allora il fare carte false diventa un’opzione attraente ogni giorno di più. La funzione di veto rispetto ad azioni ciniche, manipolatorie ed opportuniste – una specie di valvola che pure esiste materialmente nella nostra neurobiologia – si arrugginisce al punto da farle passare omettendo il calcolo dei rischi e degli effetti collaterali: tragedia e scandalo, con quel che ne segue, sono a un passo, prima o poi ci scappano.

Dubbi etici e cinismo
Chi ha già visto o vedrà il film si renderà conto di questa voragine etica che all’improvviso si apre sotto i piedi di Blanco: succede quando egli stesso, esasperato, organizza una spedizione di ragazzi malviventi per far sgombrare un ex dipendente licenziato e ora appostato indefessamente davanti al cancello dell’azienda per protesta; accidenti, proprio adesso che la commissione aggiudicatrice del premio all’ eccellenza è in procinto di visitare l’azienda! Quell’uomo accampato lì fuori, senza più un lavoro, munito di megafono e con figlioletta al seguito, è un neo troppo grande, un disturbo, l’evidenza dell’ennesima imperfezione cui porre rimedio costi quel che costi: ne va della mia leadership…

Aristotele, nella poetica, definisce come deve essere ordita una tragedia e che funzione abbia per quella che oggi chiameremmo la formazione continua dei cittadini ateniesi. Il film rispetta questi canoni accuratamente fino al momento in cui la tragedia vera e propria si compie: rimane ucciso il figlio di uno dei più anziani e fedeli dipendenti, uno dei ragazzi ingaggiati da Blanco per scacciare il contestatore molesto e che viene colpito a morte proprio da quest’ultimo durante l’azione scellerata. Un drammaturgo antico si sarebbe fermato qui, avendo dimostrato l’assunto dell’accecamento della ragione quando dominata dalla rabbia furiosa o da un desiderio bruciante. Gli spettatori sarebbero tornati alle loro case atterriti abbastanza e con la lezione in tasca.

Il capo perfetto invece oltrepassa la lettura psicologica: ci mostra il protagonista tutt’altro che contrito, anzi soddisfatto per aver portato a termine la mission, ottenuto e bellamente affisso la targa celebrativa della sua perfezione, senza neanche essere denunciato dal padre della vittima come mandante dell’aggressione. Questa soddisfazione è scandalosamente cinica, siamo perfettamente d’accordo; ma forse non è questa la sottolineatura da fare. Il bersaglio del film non è il comportamento di Blanco in quanto tale; sta piuttosto nel fatto che costui sia un “prodotto” perfettamente determinato da meccanismi egotici oggettivi, dei quali non ha tuttavia alcuna reale coscienza. Di là dalla preterintenzionalità delle conseguenze, non possiamo essere sicuri, in punta di bio-logica, che egli abbia agito nella pienezza di libero arbitrio: forse è anche per questo che non avverte rimorso e riprende la vita normale dopo il funerale della giovane vittima.

Uno spiraglio di ottimismo?
Che cosa ne sarà, in conclusione, della Blanco Basculas? Su questo il film sembrerebbe concedere, finalmente, qualche scena di ottimismo. Afrodite nelle vesti della stagista ha ormai Blanco in pugno: lo ha sedotto da par suo con l’inganno, occultando il fatto di essere in realtà la figlia del suo migliore amico; può ricattarlo e quindi disporre dell’azienda. Il suo primo atto manageriale è il nuovo piano di marketing, con il quale trasfigura il logo dell’impresa: quella bilancia a due piatti, già simbolo di equilibrio perfetto, muore e rinasce dalle proprie ceneri, ma questa volta a rappresentare la Giustizia, quella cosa davanti a cui sono tutti uguali.

Un altro tipo di perfezione, si potrebbe pensare, ma una perfezione messa questa volta al servizio di uno scopo universale e bello in cui tutti possono riconoscersi ed esprimere una leadership collettiva sana, che non ha bisogno di essere trascinata da qualcuno in particolare, dove la followership è abolita almeno in linea di principio.

Viene così nella luce l’altro aspetto di Afrodite, quello filosofico, intuito in origine da Platone, secondo il quale Socrate era “bello” nonostante le fattezze non proprio gradevoli, bensì per la sua moralità. Poiché il Male è incoscienza del Bene ed è inesorabilmente brutto, la nuova strategia – se di strategia ancora si può parlare sotto il segno di Afrodite – sarà quella di perseguire il Bene (la Giustizia) in quanto Bello. Vuol dire che nessuno più, alla Blanco Basculas, sarà lasciato senza lavoro o reddito sul ciglio di una strada?

Forse l’autore del film invoca qualcosa del genere e vuole farcelo desiderare ardentemente, ma qui si ferma passando idealmente il testimone agli economisti. Nel prenderlo – questo testimone – mi limito ad osservare che il seguire la stella polare della giustizia rompe la bolla di vetro paternalista e angusta in cui stava l’impresa con il suo leader carismatico, spinge a cercare creativamente e a stabilire legami vivi cooperanti con tutti gli altri enti territoriali e terrestri, innescando un metabolismo esponenzialmente più efficace e più veloce nel digerire gli effetti brutti dei processi economici.


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