Facebook sotto accusa: sfrutta la vulnerabilità psicologica dei suoi utenti

Non usa mezzi termini Sean Parker, fondatore di Napster e uno dei primi investitori del social creato da Mark Zuckerberg. Dalle notifiche che ci tengono attaccati alla piattaforma al problema delle fake news

Con 2.07 miliardi di utenti mensili, più di un quarto della popolazione globale, Facebook è innegabilmente il social network numero uno. La creatura di Mark Zuckerberg permette di restare in contatto con amici, conoscenti e colleghi di lavoro e avere costanti aggiornamenti attraverso le news che appaiono sulla nostra bacheca.

Eppure, sono sempre più i magnati del web che prendono le distanze da Facebook, persino coloro che hanno fatto fortuna dai suoi servizi. L’ultimo della lista è Sean Parker, colui che ha ideato e lanciato Napster e ha fatto parte del team di investitori di Facebook. 

In questa intervista online su The Verge Parker punta il dito contro le tattiche impiegate per tenere gli utenti incollati alla piattaforma, affermando che “sfrutta deliberatamente la vulnerabilità psicologica degli esseri umani”, attraverso l’approvazione e il riconoscimento sociale con like, condivisioni e commenti. Per Parker, inoltre, nessuno può prevedere come il social stia danneggiando il cervello dei bambini.

Come se non bastasse, la vicenda delle fake news all’inizio dell’elezioni presidenziali statunitensi nel 2016 è ritornata sotto i riflettori mostrando la vulnerabilità anche di Facebook: i cosiddetti “fact-checkers” assunti per ostacolare la diffusione di queste notizie e limitarne l’impatto hanno infatti ammesso di recente che a causa delle loro scarse competenze e della mancanza di risorse efficaci il loro intervento ha prodotto solo risultati minimi, pari a quelli di un qualunque team di PR.

In definitiva, spetta a noi, in quanto utenti, stabilire se abbiamo un ritorno che compensa il tempo e e l’attenzione che riversiamo su Facebook. La moderazione sarebbe la via ottimale, ma spesso il richiamo delle notifiche è troppo irresistibile e allora, forse, non resta che disconnetterci per un po’.

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