Corruzione: dobbiamo fischiare

Gli ultimi fatti di Roma riportano la corruzione al disonore della cronaca. Che fare per combatterla? Cosa succede se un dipendente decide di non volgere lo sguardo altrove quando si accorge che il capo della sua azienda ruba? Se di fronte al dilemma “salvare la propria carriera o la propria coscienza” opta per quest’ultima? Andrea Franzoso lo ha raccontato nel libro Il disobbediente (PaperFIRST) in cui ripercorre la sua vicenda umana e professionale

La cronaca di oggi riporta al centro la corruzione. Per combatterla serve anche che ognuno di noi si metta in gioco. Per questo parliamo di un fatto virtuoso accaduto alcuni anni fa. Nel febbraio 2015 Andrea Franzoso, funzionario dell’internal audit di Ferrovie Nord Milano, scoprì che il suo presidente addebitava all’azienda le spese personali e della sua famiglia. Lo segnalò internamente, ma gli dissero: «Lascia stare». Il presidente del collegio sindacale fu ancora più esplicito e gli prospettò un avanzamento di carriera: «Utilizza queste informazioni a tuo vantaggio: sii furbo, ascolta i miei consigli, e quel posto da dirigente sarà tuo». Come contropartita gli chiese “soltanto” di alleggerire il report di audit. Franzoso, invece, andò dai carabinieri e presentò un esposto, firmandolo con nome e cognome. Partì allora un’inchiesta della Procura di Milano per peculato e truffa aggravata: il presidente Norberto Achille fu costretto a dimettersi e fu rinviato a giudizio. Andrea Franzoso pagò a caro prezzo la sua scelta: subì ritorsioni e un trasferimento in un altro ufficio, senza più alcun compito di controllo. Attorno a lui si fece il vuoto: i colleghi gli voltarono le spalle e presero a evitarlo. Infine, perse il lavoro. Il 24 ottobre 2017 l’ex presidente di Ferrovie Nord è stato condannato a due anni e otto mesi di carcere.

«Il mio non è un libro-denuncia – precisa l’autore – non è la storia dello scandalo Ferrovie Nord, che costituisce soltanto lo sfondo. Ho cercato di spiegare le ragioni e il senso della mia scelta. Ciò che è capitato a me è successo a molti altri in passato; avviene oggi, accadrà domani: che strada prendere quando ci troviamo di fronte a un dilemma etico?». 

Lei nel 2015 lavorava nell’internal audit di Ferrovie Nord Milano e si occupava di organismi di vigilanza. Come si era svolta sino ad allora la sua carriera?

«Dopo il liceo ho frequentato l’Accademia militare di Modena e per otto anni ho prestato servizio come ufficiale dei carabinieri, congedandomi col grado di capitano. Mi sono laureato in Giurisprudenza, ho un baccalaureato in Filosofia e un Master in business administration (Mba) conseguito presso la Sda Bocconi». 

Le piaceva il suo lavoro (e fare il manager)?

«Era il lavoro con cui mi guadagnavo da vivere. Detto con franchezza, le mie passioni stavano altrove: la letteratura, il teatro, il cinema, la montagna…». 

Cosa ricorda di quando ha scoperto che il suo presidente utilizzava denaro pubblico per i suoi interessi?

«Ricordo un forte senso di nausea e di rivolta morale… e lo sdegno verso i colleghi che sapevano e tacevano».  

Ha mai avuto dubbi sul da farsi?

«Mai. D’altra parte io ero stato assunto proprio per fare ciò che ho fatto. Con molta serenità e fermezza ho segnalato ai vertici che avevamo i ladri in casa, o meglio, in azienda, e che a rubare era nientepopodimeno che il presidente!». 

All’interno dell’azienda le dissero di lasciare stare. Perché secondo lei ci fu questa reazione?
«Chi mi parlò così aveva qualche scheletro nell’armadio e temeva che saltasse fuori. A pesare, ci fu anche una buona dose di menefreghismo e di sottili connivenze. Attorno ai capi, si sa, ci sono tanti cortigiani che cercano di lucrare qualche beneficio attraverso l’adulazione o i ricatti. E il silenzio su certe faccende viene ricompensato a peso d’oro. Bonus, promozioni, altri incarichi… devo continuare?». 

Di fatto fu lei a venire isolato e ad essere trasferito ad altra funzione aziendale, senza compiti di controllo. Come furono quei momenti?

«Dolorosi. A ferirmi furono soprattutto il voltafaccia dei colleghi, l’ipocrisia dei doppiogiochisti e l’indifferenza degli ignavi. Di chi sta alla finestra e cerca di capire da che parte tiri il vento». 

Nonostante questi ostacoli non si perse d’animo e denunciò i fatti all’esterno, alle forze dell’ordine. Cosa la spinse a mettere a rischio il suo lavoro e la sua carriera?

«Ho sentito che avevo la responsabilità di porre fine a quello scempio di risorse pubbliche. La responsabilità, ma anche il potere: era nelle mie possibilità e l’ho fatto. A spingermi fu anche il rispetto verso me stesso. Ho pensato: un altro lavoro lo posso trovare, ma se calpesto la mia dignità, non posso metterla in lavatrice. Persa una volta, è persa per sempre. Chi ha un prezzo non vale niente». 

Oggi rifarebbe tutto quello che ha fatto?

«Certo, mille volte. Voglio continuare a essere un uomo libero». 

Non sono forse i manager quelli che più di tutti in azienda dovrebbero dare l’esempio e fare il possibile per combattere e annullare l’illegalità?

«Già, dovrebbero dare l’esempio. Purtroppo, molti manager antepongono la carriera e il successo personale all’etica e al bene comune. Tra la fedeltà alla propria coscienza e quella al proprio ambiente di lavoro, ai loro capi, alla “cordata” vincente, optano per quest’ultima. Più che per paura, per un calcolo opportunistico. Così facendo, però, si condannano a una vita da mediocri e all’infelicità. Per fortuna ci sono anche tante persone oneste e capaci: è grazie a loro se non affondiamo». 

Tutti i lavoratori, non solo manager, hanno però un ruolo in questo. Come devono agire?

«È vero. Ciascun lavoratore ha la responsabilità di segnalare ciò che non va e di denunciare gli illeciti. Io non ho niente da insegnare, ciascuno di noi sa bene come deve agire: secondo coscienza e nel rispetto delle leggi». 

Lei è stato il portabandiera della legge sul whistleblowing approvata dal parlamento ed entrata in vigore il 29 dicembre 2017. È sufficiente?

«No che non lo è, perché è necessario anzitutto un cambiamento culturale. Certo, la legge stessa fa cultura, ma il transito verso un nuovo paradigma richiede tempi lunghi. Tra l’altro è interessante notare che nella nostra lingua non esiste un termine semanticamente corrispondente all’inglese whistleblower (letteralmente “colui che soffia il fischietto”, ossia il lavoratore che – come l’arbitro che fischia il fallo per fermare il gioco sporco – invece di farsi i fatti suoi segnala corruzione e malaffare). I termini usati hanno tutti quanti un’accezione negativa: delatore, spia, talpa, gola profonda, sicofante, infame… Quando manca una parola, manca l’idea, la possibilità. Quella cosa lì è inconcepibile, impensabile. Però esportiamo all’estero la parola “omertà”: questa sì, tutta italiana. La lingua riflette la società che la parla. E noi, fin da piccoli, cresciamo con l’adagio che Chi fa la spia non è figlio di Maria… Io lo sostituirei con quest’altro: Chi tace acconsente». 

Com’è cambiata la sua vita dopo questo episodio e adesso cosa fa?

«Quelli che ieri erano i miei hobby – la scrittura ecc. – oggi sono diventati il mio lavoro: faccio l’autore televisivo per Loft, la casa di produzione e web-tv del Fatto Quotidiano. La qualità della mia vita è migliorata». 

Quale consiglio darebbe ai manager e a tutti i lavoratori per creare le condizioni che siano di default un antivirus all’illegalità?

«Di ricordarsi che chi chiude gli occhi di fronte a un illecito non fa il bene della propria azienda: distrugge un bene intangibile quale la fiducia, senza la quale una società non può prosperare. Di tenere la schiena dritta. Di non scegliere ciò che conviene, ma ciò che è giusto, bello, vero. Di coltivare l’interiorità e l’empatia. Di rispolverare il buon vecchio esame di coscienza. Di andare più spesso a teatro, di assistere a qualche rappresentazione delle tragedie greche, in primis, l’Antigone di Sofocle. Di leggere la grande letteratura. Di guardare negli occhi i propri figli e di ricordarsi che l’eredità più preziosa che lasceremo loro non è fatta di beni immobiliari o mobiliari, ma di valori veri, quelli che non si devono depositare in banca, ma che danno senso alla vita e scaldano il cuore. Insomma, prima del manager deve esserci l’uomo. Non servono nuove leggi o nuove procedure: ce ne sono fin troppe. Abbiamo bisogno di persone perbene, di persone autentiche». 

Su questi temi segnaliamo le iniziative di Riparte il Futuro, associazione partner di Prioritalia che si occupa di contrasto alla corruzione e che ha promosso il dibattito sul whistleblowing in Italia. A marzo è stato presentato un progetto con i giovani, di cui si parla in questo video, che ha coinvolto un manager di Manageritalia Lazio.

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