Coronavirus: qui Philadelphia

Stiamo attraversando una crisi sanitaria mondiale: una vera e propria pandemia. Di fronte a un virus altamente contagioso e ancora oggetto di studio, i governi dei diversi paesi hanno adottato specifiche misure, dal lockdown totale ad altri interventi più soft, sempre in relazione alla curva del contagio. Manageritalia ha raccolto alcune testimonianze di suoi collaboratori, manager e professionisti che vivono all'estero in questo periodo. L'obiettivo? Offrire una fotografia di altre realtà e punti di vista, raccontando l'impatto del coronavirus sulla vita quotidiana di società diverse da quella italiana, condividendo esperienze, passi falsi e best practice. Oggi pubblichiamo la testimonianza di Francesca Contardi, da Philadelphia

Vivere l’esperienza dell’isolamento da coronavirus in USA è come essere sospesa tra due mondi. Di fatto sei isolato in casa, senza contatti con l’esterno e con forti preoccupazioni per ciò che sta accadendo in Italia: amici, parenti, azienda, colleghi sono tutti dall’altra parte dell’oceano e la maggior parte di loro in Lombardia.

Per cui ti svegli leggendo i giornali italiani e la sera guardi i TG italiani con 6 ore di ritardo. Pensi di essere in Italia, eppure sei a migliaia di chilometri di distanza. Ma in fin dei conti, se sei a Milano o a Philadelphia, in questo momento, non cambia molto in termini di rapporti umani.

Quello che cambia forse sono i rumori. Quando sono arrivata qui, 8 mesi fa, ho dovuto abituarmi al rumore incessante e potente delle sirene. Le sirene della polizia, quelle dei vigili del fuoco e delle ambulanze. Ora, da quando c’è il lockdown, non si sentono più. Quando se ne sente una, si è quasi sorpresi. Non si vedono più neanche i grossi camion dei pompieri per le strade. C’è un silenzio quasi irreale, anche se le auto continuano a circolare. Non c’è la sensazione angosciosa che ti raccontano dall’Italia del solo rumore delle sirene.

Effettivamente, qui il lockdown è stato meno pesante che in Italia. Come in Italia, hanno chiuso tutte le attività non essenziali, le scuole e gli uffici pubblici. Ma per fare la spesa o un po’ di attività fisica si può andare ovunque, purché si rispetti la regola dei 6 piedi di distanza dagli altri.

La prima cosa andata in tilt con il lockdown sono state le consegne a domicilio. Nella grande America stanno comunque facendo fatica a riordinare i prodotti e a consegnarli. Ieri, ad esempio, ci hanno programmato una consegna non prima di 12 giorni, ma ci hanno dato la possibilità di ritirarla con un servizio di pick up, in una zona dei sobborghi di Philadelphia. Si arriva, si telefona e un operatore – senza guanti o mascherina – dice di non scendere neanche dall’auto perché si occupa lui di tutto. Peccato però che il 50% dei prodotti ordinato non ci sia e che il prossimo ordine andrà fatto di nuovo a breve.

Tra le tante cose introvabili – oltre alle classiche mascherine e ai gel igienizzanti – è andata a ruba anche la carta igienica. All’inizio non volevo crederci, ma poi – quando ancora si girava per i supermercati – iniziavo a vedere file di scaffali vuoti con davanti un uomo della security e ho cambiato opinione. È una costante: nelle emergenze, per gli americani la carta igienica è alla pari della carne per il bbq, il succo di pomodoro e le uova. Si tratta di beni ormai introvabili.

Quando si esce a fare due passi veloci, si notano immediatamente l’educazione e la correttezza delle persone: si mantengono tutti più o meno a distanza, cambiano marciapiede se incontrano qualcuno sulla stessa strada, si fermano o si spostano se si è troppo vicini. E da ieri molti indossano anche le mascherine perché il governatore della Pennsylvania le ha caldamente raccomandate.

Devo dire, comunque, che anche prima di questa emergenza non è che gli americani eccellessero in rapporti ravvicinati. Niente baci, al massimo una pacca sulla spalla o un abbraccio fugace e, qualche volta, una stretta di mano. È un popolo che mantiene le distanze comunque rispetto a noi e forse questo – speriamo – potrà aiutare a contenere l’epidemia.

Un altro evento quotidiano è diventato l’incontro della stampa con il presidente. Trump la sera si mette a disposizione dei giornalisti per rispondere alle domande. È sempre accompagnato dai tecnici a cui lascia la parola in caso di risposte specifiche. Sembra che vada a braccio (tolti i dati quotidiani) e risponde a quello che viene chiesto. Ecco, questo, indipendentemente dall’orientamento politico, è un aspetto che reputo molto interessante, utile e democratico. Da noi non c’è quasi più contraddittorio.

Qui, si ha la sensazione che ci sia una guida. Ieri era c’erano il dott. Fauci – massimo esperto italo americano a capo della task force sul coronavirus – un rappresentante dell’esercito e Pence, il vice di Trump. Si è parlato delle aziende che stanno producendo i ventilatori, sono stati fatti i nomi, sono stati comunicati i numeri delle produzioni, l’approccio alla distribuzione.

Anche qui negli USA l’economia ha preso una grande botta, ci sono milioni di americani che hanno già chiesto il sussidio per la disoccupazione perché senza lavoro si resta senza sostentamento e, soprattutto, senza assicurazione sanitaria.

Conosco una coppia di italiani che giusto un anno fa ha aperto un laboratorio di pasta italiana a Philadelphia. Business stupendo e che stava andando molto bene con una struttura innovativa e cibo eccellente. Oggi, nonostante tutto, sono aperti e qualcuno dei loro dipendenti ha mantenuto il posto di lavoro. Chiaramente con gli uffici chiusi c’è molto meno giro di persone ma riescono a sopravvivere e a non chiudere del tutto.

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