Congresso Manageritalia: il futuro del lavoro in 7 punti

Spunti e riflessioni dalla terza tavola rotonda dei lavori congressuali, lo scorso 15 novembre. I concetti chiave emersi durante il dibattito con Mario Mantovani, presidente Cida e vicepresidente Manageritalia, Giovanna D'Esposito, general manager South e West Europe Uber, Gabriele Fava, socio fondatore dello studio legale Fava & Associati, Fabio Salvi, head of HR Flixbus

Linee guida per il lavoro liquido e digital

Mario Mantovani: Non è scontato che il lavoro abbia un futuro. C’è chi dice che il futuro del lavoro è che ci sarà meno lavoro e dunque che dobbiamo prepararci a una vita priva di lavoro. Il lavoro non è solo lo scambio di tempo in cambio di denaro. È un modo per entrare in contatto con la società. Se perdiamo e mercifichiamo solo il lavoro abbiamo persone che perdono il filo con la società. Oggi chiamiamo lavoro solo alcune attività e abbiamo questa distinzione tra lavoro e tempo libero: se non la superiamo, il lavoro non ha futuro. Così come se non chiamiamo lavoro tante altre attività che presuppongono la relazione con gli altri.

Il futuro possiamo leggerlo in tanti modi. Io non credo sia una linea retta con eventi che si succedono come una block chain. Lo immagino a centri concentrici. Ciò di cui dobbiamo occuparci è altro. Oggi viviamo una gobba demografica. La generazione nata negli anni 60 è estremamente numerosa. Ma finirà. L’Italia del 2015 potrebbe avere 52-50 milioni di abitanti o meno. Dobbiamo capire se qualcosa può cambiare e che impatti avrà. Il terzo orizzonte vede una trasformazione economica e sociale pari a quella della rivoluzione industriale.

Gabriele Fava: Devono esistere norme nel lavoro. La recente polemica sui riders è stata inutile, fine a se stessa, e ha dato una risposta sbagliata. Si dovrebbe partire dai dati. L’età media è di 25-26 anni. Il rapporto di lavoro dura dai 6 agli 8 mesi. Non c’è nessun interesse ad essere dipendenti, lavoratori subordinati. Si tratta di un’attività svolta in pluricommittenza e questo esclude la subordinazione. Lo stesso tecnico si deve mettere in discussione e studiare nuove coperture giuslavoristiche. Oggi non bisogna aver paura della tecnologia che consente queste forme di lavoro diverse dal passato. La tecnologia deve essere abbracciata, ma governata anticipatamente per cogliere nuove opportunità di lavoro. I lavori manageriali non potranno mai essere sostituiti dai robot perché concettuali. Oggi c’è il praticante virtuale, ma questo elabora solo dati.

Un gap normativo?

Le persone devono essere motivate ma anche tutelate. Il legislatore spesso è un passo indietro. Registriamo purtroppo stagioni non al passo coi tempi. Il legislatore dovrebbe intercettare il fabbisogno di tutti i tessuti occupazionali e restituire le risposte sotto forma di interventi legislativi. Dovrebbe rispondere coi tempi dei piani industriali. Ci sono tante tematiche importanti. Le priorità sono sulla valorizzazione delle competenze attraverso una formazione continua. La formazione è fondamentale per andare incontro a questi nuovi ruoli, figure strategiche. Il manager oggi è un partner dell’impresa. Si siede nella stanza dei bottoni e partecipa alle decisioni con coraggio. Il fatto che il legislatore sia un passo indietro è sano. Viviamo in uno stato in cui il legislatore osserva la realtà e stabilisce delle norme. Facciamo finta che dobbiamo riscrivere queste regole. Chiamiamolo lavoro organizzato. Può essere con monocommittenza o pluricommittenza. Sono veramente poche le persone freelance. Tutto il resto lo chiamo lavoro organizzato. Magari non sarànecessario che sia sempre presente in un luogo o che la prestazione sia misurata in termini di tempo. Le variabili ricondotte al lavoro dipendente sono obsolete. Se noi mettiamo insieme la flessibilità operativa con la struttura forse riusciamo ad avere organizzazioni evolute. Ci sono ruoli simili, ad esempio quello del revisore, che può essere svolto con contratti diversi, da dipendente o d’autonomo. Andiamo oltre i luoghi comuni: il lavoro autonomo è il lavoro del futuro? In Italia diminuisce.

Giovanna D’Esposito: Il futuro del lavoro parte dal lavoro con due parole chiave: flessibilità e accessibilità. Sono due parole che usiamo tutti i giorni. Questi stessi due principi devono necessariamente essere associati anche al lavoro. Sono dal nostro punto di vista i principi con cui abbiamo costruito la tipologia di servizi che offriamo e le opportunità che creiamo. Noi siamo oggi presenti in 65 paesi, 100 milioni utilizzano Uber, 4 milioni di autisti, 25mila dipendenti. Autisti e dipendenti per gestire questa complessità devono avere una struttura che possa garantire accessibilità normativa. Dobbiamo riflettere su come viene proposto oggi un servizio. Parlo di modalità di lavoro che non siano tradizionali dove il quadro normativo è fondamentale.

Le persone (non i dipendenti) al centro

Fabio Salvi: Il tema della parola dipendente è una scelta lessicalmente infelice. Era adeguata a un certo tipo di organizzazione vissuta dai nostri padri. I Millennials non vogliono il posto fisso, la carriera in senso classico. C’è sempre stata una distinzione tra lavoro e vita che le organizzazioni hanno incoraggiato. Pensate che per lavorare io avevo una divisa nell’armadio, un vero e proprio completo. Il lavoro crea un valore non solo economico rispetto al contesto.

Mantovani: Chi ha 10 deve restituire 10, chi ha 5 deve restituire 5. Come si gestiscono i talenti? I settori che stanno cambiando più rapidamente sono quelli che generano valore economico che permettono alle risorse di avere maggiore accesso alle tecnologie. Organizzazioni che integrano le persone. Ciò che è cambiato tanto è il modello organizzativo delle imprese più innovative che da tanto tempo non è più quello gerarchico e non discute di centralizzazione. Il concetto di piattaforma presuppone l’accesso. Il fatto che si possa accedere come utilizzatore di servizi, creare un luogo in cui le persone possono accedere a servizi. Le persone non hanno più un centro ma sono in una rete, un insieme di regole comuni e il meccanismo in cui funziona. In ogni momento ciascuno può essere al centro delle organizzazioni. Il dove e il quando determina la centralità.

Dati e risorse umane: chi li gestisce?

Salvi: Il 90% dei dati oggi disponibili è stato creato negli ultimi 2 anni: il manager può essere il depositario della conoscenza ma non è plausibile che il manager sia quello che sa tutto. Il ruolo deve cambiare, abilitare un gruppo di persone a lavorare su temi che oggi non esistono. Un’altra parola che vorrei evitare quando si parla di lavoro è talento, una parola che esclude. Se qualcuno ha un talento qualcun altro non ce l’ha. Il talento deve essere una caratteristica di una persona o dell’organizzazione.

D’Esposito: Il software si può rompere, può essere baggato. Ma l’equilibrio lavorativo si rompe se non interviene qualcosa che tenga insieme le relazioni umane. Nel momento in cui io faccio parte di un’organizzazione, lavoro con quel tipo di organizzazione diffusa. Le risorse che sono a disposizione non sono codificate. Quando l’organizzazione è fatta in questo modo le tensioni, frizioni e quello che governa le relazioni umane può intaccare il software. È fondamentale rafforzare la missione delle organizzazioni. Va creata un’ulteriore identità globale anche tra persone che non si vedono ma che devono disegnare i valori che li definiscono. Quando si ha quella chiarezza è molto più agevole gestire rapporti diffusi e remoti.

Salvi: Il lavoro delle risorse umane è sempre stato connotato negativamente. Quando arrivano gli HR sorridiamo e diciamo quello che l’organizzazione vuole sentire. Cosa rende una relazione positiva? L’autenticità. Se io ho una faccia solo le persone mi credono. Quando sono una persona credibile le persone mi seguono e si sentono in diritto di dissentire. Il tema è restare umani senza avere paura di apparire vulnerabili. Solo così si può gestire un team permettendo alle persone di dare un contributo. Se le persone sono motivate allora anche il risultato economico è migliore. Non è solo un imperativo etico ma perché produce un risultato economico.

Generazioni a confronto

Fava: Silver economy è uno dei temi che ci occuperanno nei prossimi anni. L’Istat ha fornito dati sulla silver economy. Over 50. Fascia che si può permettere più di altri, soprattutto dei giovani. Se questa fascia viene organizzata aiuta i giovani a restare nel mercato del lavoro con gratificazioni e progressioni. Da domani ci sarà un’inversione di tendenza. Ci sarà una maggiore attenzione alla silver economy. Se ad oggi c’era un focus esclusivo sui giovani. Da domani questo focus non è più esclusivo.

Salvi: Le generazioni devono sempre più collaborare tra loro. 29 età media. Io ho 42, sono silver. Non basta solo l’entusiasmo, il disruptive. Non è una guerra tra generazioni che accelererebbe il cambiamento economico. Io pagherei per avere un po’ di esperienza in più.

Chi ha paura del cambiamento?

Mantovani: chi ha paura del cambiamento ha qualcosa da perdere. A me non piace la parola cambiamento. Esistono tanti cambiamenti. A una parte di questi cambiamenti occorre adattarsi. Dobbiamo adattarci al futuro. Noi possiamo mettere una finalità. Possiamo anche pensare che sviluppi autonomamente i suoi comportamenti. Ciò che un essere umano può cambiare è cambiare la sua finalità.

D’Esposito: l’intelligenza artificiale è al servizio assoluto degli umani. Per noi AI significa saper utilizzare una grande mole di dati al servizio delle aziende e delle città. Noi abbiamo come missione la passione di rendere le città più vivibili e a misura d’uomo. Uber mette a disposizione una serie di dati per le amministrazioni pubbliche. Il ruolo del manager non è quello di avere risposte ma fare delle domande. Sono tanto più brava come manager se faccio le domande giuste. Se faccio la domanda giusta tiro fuori la storia da un dato. Penso di essere una manager che ha imparato a porre tante domande. È fondamentale perché c’è talmente tanto da fare. Se non si chiede perché questa cosa qui e non un’altra si finisce per non riuscire a incanalare tutta l’energia presente nelle organizzazioni.

Il senso di quello che facciamo, oltre le parole e gli slogan

Fabio: Perché è una delle domande principali che dobbiamo porci. Motiva l’essere umano. Stiamo facendo una cosa equa, fair, etica? Penso sia un valore che deve essere portato all’interno delle organizzazioni. Genera valori positivi. Mi faccio domande che prescindono dal valore economico. Il valore orienta le scelte difficili. Se noi ragioniamo solo in termini monetari abbiamo già il modello. Il lavoro quanta parte è nella nostra vita? Perché facciamo certe cose di domenica e altre di lunedì.

Mantovani: classe è un concetto superato. Così come esclusivo, che esclude. Sono due concetti che andrebbero modificati. Oppure uguaglianza: siamo tutti uguali: molti problemi della nostra società sono legati alla percezione che questa forbice si allargherà. Poco conta se nell’area in cui lavoro o nel settore in cui ho acquisito competenze aumentano le opportunità di lavoro lontane da dove sto. L’altra dicotomia che penso sia utile cambiare è quella di scambio e accesso. Abbiamo l’idea di scambiare un bene con un altro. Cambiarlo con l’ottica dell’accesso significa consentire a tutti di avere accesso con le risorse. Spesso definiamo liquido un lavoro che ci obbliga a prendere decisioni, variabili nuove. Sempre meno contano competenze specifiche. Acquisire le competenze è quello che sempre più viene richiesto. Nei processi di recruiting l’azienda tende ad essere un po’ conservativa. Replicare qualcosa che è già stato fatto significa che stai prendendo la via sbagliata.

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