Come sta oggi il mondo?
«Direi male, perché vive molte crisi. Di per sé, questa è una condizione normale, ma il mondo, purtroppo, si abitua alle crisi e ha poche medicine e pochi strumenti per curarsi. E poi, ancora peggio, non impara dalle lezioni ricevute. Questo è molto preoccupante perché, se non impariamo dalle difficoltà e dalle tragedie, siamo inevitabilmente destinati a ripeterle».
E l’uomo, l’umanità e, di fatto, la società, come stanno?
«La società, anche quella digitalizzata, è fatta di persone. Come diventerà, poi, la società con l’intelligenza artificiale e con i meccanismi che la determineranno, non lo sappiamo. Quindi, a maggior ragione, c’è bisogno di tanta umanità e, sfortunatamente, ho l’impressione che l’intelligenza naturale si sia un po’ inceppata: è molto individualizzata e troppo catturata dall’ego che, se separato dal noi, inevitabilmente va a finire male».
Come e perché siamo arrivati qua, in un terzo millennio caratterizzato da crisi di ogni tipo, non ultima una recrudescenza di guerre diffuse?
«Perché non ricordiamo ciò che è accaduto e diamo molto per scontato. Perché pensiamo di godere delle tante possibilità che abbiamo, senza prendercene cura e senza preoccuparci di lasciare qualcosa agli altri: prendiamo, consumiamo molto e lasciamo poco. E così siamo arrivati a ciò che viviamo oggi, tanto che la pace, che è la condizione fondamentale senza la quale perdiamo tutto, viene rimessa in discussione, non solo dalle scintille dei tanti pezzi della guerra mondiale, ma soprattutto dall’idea del riarmo, cioè dalla triste convinzione che, per preparare la pace, occorre preparare la guerra, come se l’unico modo per difenderla fosse il riarmo. Avevamo imparato il contrario: forse dovremmo ricordarci che bisogna preparare la pace per trovarla realmente».
E come se ne esce da questa situazione di guerre e di crisi?
«È necessario agire insieme, ritrovando le radici profonde dell’umanesimo, penso soprattutto al nostro Paese e all’Europa. Se ne esce anche iniziando a non pensare esclusivamente a sé stessi, ma facendo un’operazione sostanzialmente copernicana, imparando a considerare che esistono anche gli altri oltre a noi».
Qual è il ruolo della religione sempre, ma ancor più oggi?
«Penso che sia davvero importante, non lo dico per deformazione professionale. Abbiamo grande bisogno della religione, in particolare del cristianesimo, perché, se non affrontiamo e non capiamo il limite tra la terra e il cielo, pensiamo che il cielo debba essere sulla terra e, paradossalmente, creiamo degli inferni. Quando capiamo il limite e quando, nella religione, troviamo anche il modo per affrontarlo e risolverlo – e ciò vale per tutte le religioni – viviamo meglio sulla terra e impariamo che, forse, c’è un “oltre” che ci permette di capire la parte in cui viviamo».
Ma poi quale religione? E le religioni, quelle vere, possono convivere e come?
«Per me la religione è il cristianesimo. Penso che, talvolta, lo viviamo con maggiore consapevolezza nel suo aspetto trascendente, mentre, in altri momenti, ne viviamo l’umanesimo e l’attenzione verso il prossimo, che è frutto della predicazione evangelica e che, in essa, deve ritrovare l’origine, per non perdersi. Il vero umanesimo cristiano insegna che per stare bene, devo far stare bene gli altri. Le diverse religioni devono convivere, diventando forse il principale ponte ed evitando di essere utilizzate, al contrario, per costruire muri e distruggere ponti».
Oggi si parla tanto di inclusione, una bella parola, ma poi, nei fatti, ne vediamo poca, vero?
«È vero. Tutti abbiamo bisogno di inclusione e tutti siamo fragili e, in tanti modi, rischiamo l’esclusione. Ad esempio, la depressione o le malattie di relazione sono imprevedibili, e talvolta colpiscono anche persone che hanno tanto, ma si trovano improvvisamente a vivere queste difficoltà. Sono esclusi anche i più fragili, i più bisognosi, quelli che noi chiameremmo “i diversi”. Su questo punto bisogna fare molta attenzione, perché, un po’ diversi, lo siamo tutti. Quindi, l’inclusione è importante ed è una garanzia per tutti. Includere vuol dire che trovo qualcuno con cui poter stare insieme: un fratello, una sorella, non un problema. L’uomo non è un’isola. Se crediamo il contrario è molto preoccupante. Sarebbe come una forma di autoesclusione, con tutto ciò che ne deriva».
E il dibattito sul ruolo delle donne, sul patriarcato, sul maschilismo quali sbocchi per arrivare davvero alle pari opportunità?
«Ci sono tantissimi sbocchi per arrivare alle pari opportunità, innanzitutto una determinazione e una scelta. Poi, forse, dovremmo discutere di più su cosa significhi patriarcato. Penso che, paradossalmente, siamo tornati indietro, siamo tornati al maschio Alfa. Il patriarcato, infatti, aveva un ruolo e si assumeva delle responsabilità, mentre il maschio Alfa no. Dobbiamo realmente imparare a relazionarci, a voler bene, a capire come si costruisce una relazione vera con l’altro e, in particolare, con la donna. Se non lo impariamo viviamo male e facciamo del male».
Nel suo recentissimo libro, Dio non ci lascia mai soli, lei parla di crisi ma anche di opportunità. Quali sono oggi le opportunità?
«Le opportunità che vedo oggi sono molteplici. Siamo una generazione privilegiata, circondata da un vasto panorama di possibilità. Pensiamo alle opportunità del PNRR, che offre progetti di investimento molto superiori al suo antenato, il Piano Marshall, che dopo la Seconda guerra mondiale contribuì in modo significativo alla trasformazione dell’Italia in quella che è oggi. Tuttavia, c’è una piccola differenza da considerare: mentre allora c’erano molti figli per cui lavorare, oggi ne abbiamo pochi, e ciò si riflette anche sul nostro interesse a costruire qualcosa per il futuro. Inoltre, consumiamo molto, e questo costituisce un nodo cruciale da affrontare. Ho l’impressione che si faccia una gran fatica a costruire qualcosa di solido, duraturo e sostenibile. A volte temo che ci limitiamo a fare piccoli aggiustamenti, anziché puntare a soluzioni di lungo termine. Quindi, abbiamo molte opportunità, ma è importante anche trasformare le avversità in opportunità, utilizzandole come occasioni per provare a rendere il mondo un posto migliore di come l’abbiamo trovato».
Qual è il ruolo del lavoro nell’attuale contesto storico? Quale lavoro serve?
«Nell’attuale contesto storico, serve un lavoro che abbia sempre al centro la persona, evitando il rischio dello sfruttamento. Per fortuna, in questi decenni, sono stati sviluppati meccanismi di protezione per impedirlo, ma ci sono anche dei segnali preoccupanti. È importante comprendere che il lavoro non dovrebbe essere soltanto un’organizzazione a qualunque prezzo. Se al centro c’è la persona, l’organizzazione funziona meglio. Credo anche che il ruolo del manager sia importante. Essere manager non riguarda solo le sue abilità, ma anche la capacità di offrire e gestire opportunità, perché tutte le persone, compreso il manager, possano migliorare la propria condizione».
Anche perché nel lavoro l’uomo di fatto si realizza, giusto?
«Non c’è dubbio. Il lavoro non è mai soltanto un problema produttivo in senso stretto, è anche qualcosa di legato alle capacità e alla dignità di ciascuno».
Qual è il ruolo dell’economia, ancor più in tempi di sostenibilità, più a parole che nei fatti?
«Il ruolo dell’economia è quello di garantire delle condizioni di benessere per tutti, di lottare contro le povertà. L’uso del denaro non è mai soltanto per fare altro denaro, ma perché ci sia un’uguaglianza. Cercare l’uguaglianza fa bene all’economia. Quando questo non avviene, l’economia si fa del male e fa del male».
Parliamo adesso di lei. Un curriculum, il suo, denso di studi e incarichi importanti in tanti dei quali ha gestito comunità o situazioni delicate. Possiamo dire che lei è anche un po’ un manager?
«Sarei un pessimo manager, perché, siccome ci sono tante situazioni di difficoltà, io investirei tutto su quelle. Il manager deve saper affrontare le situazioni, ma anche prevedere quello che viene dopo. Penso che ognuno di noi debba essere anche manager di sé stesso e di quello che gli viene affidato. Occorre sempre tenere presente il motivo del perché si fa qualcosa e per chi lo si fa».
Cosa pensa del ruolo del manager oggi?
«Il ruolo del manager è molto importante, sia nel bene, sia, rischiosamente, nel male, perché, quando le persone diventano numeri, ne perdiamo l’importanza decisiva unica, rischiando di fare del male. Al contrario, il manager può aiutare in quell’arte difficilissima del lavorare insieme, può aiutare il lavoro comune, può permetterlo e far sì che questo abbia i frutti desiderati per tutti. C’è sempre tanta saggezza che ci è stata lasciata e credo che il manager debba avere, per esempio, tanta attenzione e sapienza nel trovare i modi giusti per organizzare le persone e il lavoro».
Se non avesse intrapreso la carriera religiosa, cosa le sarebbe piaciuto fare come professione nella vita?
«Per i primi otto anni avrei voluto diventare astronauta. Poi sono passato all’idea di diventare un vigile del fuoco. Crescendo, il lavoro che avrei davvero desiderato svolgere era quello di insegnante. Ho studiato lettere con qualche “combattimento” con i miei genitori, che avrebbero preferito per me materie scientifiche o giurisprudenza. Ma io ho insistito per proseguire gli studi umanistici, proprio con l’obiettivo di diventare insegnante. Peraltro, ho insegnato religione mentre frequentavo l’università e la facoltà di studi teologici, e devo dire che è uno dei ricordi più belli che ho del mio lavoro».