Come dovrebbe essere la scuola del futuro? Senza materie

Nell’universo della complessità, dove ordine e disordine si intrecciano, le competenze si ibridano, le certezze svaniscono e le carriere somigliano al tracciato di un elettrocardiogramma impazzito. Nel mondo semplice il capo poteva fare il capo perché conosceva tutte le risposte e i suoi collaboratori si fidavano di lui perché era quasi impossibile che il capo si sbagliasse. Nel mondo complesso, il capo ignora quasi tutto

Sembra che a molti manager sfugga il nesso causale tra apprendimento e competizione. 

Il legame forte che unisce la conoscenza ai mercati è sotto i nostri occhi, eppure la cultura manageriale fatica a riconoscerlo. Quando l’innovazione diviene il fattore critico di successo delle imprese, il desiderio di apprendere si trasforma nell’asset più prezioso del management. 

Il ragionamento è davvero semplice: se resto a quello che ho già imparato, mi perdo le opportunità che potrei cogliere qualora mi decidessi a porre domande di cui ignoro la risposta. Le origini di questa diffidenza nei confronti dell’apprendimento si radicano nella scuola. È lì che abbiamo cominciato ad avere paura degli errori e abbiamo smesso di lasciarci invadere dalla meraviglia dell’ignoto. 

Il desiderio di apprendere, con cui siamo tutti venuti al mondo, a scuola si è rovesciato nel bisogno di ottenere un voto sufficiente, senza il quale la punizione è garantita. Ora che l’Europa ha capito che, per competere nella globalizzazione, è necessario costruire un’intera economia sul valore della conoscenza, le scuole europee cambiano rotta. E la scuola italiana si candida all’avanguardia, in fatto di leadership del cambiamento, anche grazie al lavoro di ANP, l’associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola che ha recentemente convocato a Roma oltre 200 dirigenti scolastici per la due giorni dedicata a La scuola del futuro

Nell’aprire i lavori, il direttore generale del MAXXI Pietro Barrera ha segnalato che il 37% degli italiani adulti non ha alcun tipo di esperienza culturale: si tiene alla larga dai libri, non va al cinema, non frequenta i teatri, ignora mostre e musei. Poiché una “esperienza culturale”, qualsiasi cosa sia, comporta necessariamente una qualche forma di apprendimento, è evidente che la principale responsabile di questa diffusa indifferenza culturale è la scuola. È lì che ci insegnano ad apprezzare, oppure ci spingono a detestare, la bellezza d’imparare, il valore del cambiamento, l’eros dello stupore generativo. 

Se non veniamo in contatto con queste cose nelle aule scolastiche è poi difficile lasciarsene contaminare nella vita adulta. Partecipando al convegno di ANP ho capito che docenti e dirigenti hanno molto in comune, a partire dal fatto che sia gli uni che gli altri agiscono come i custodi delle potenzialità delle persone che sono chiamati a orientare. Un manager consapevole sa che spetta a lui determinare il valore che l’organizzazione attribuisce all’apprendimento. Allo stesso modo è compito del maestro aiutare ogni allievo a superare il comfort del risaputo per aprirsi alle insidie dell’ignoto.

Per questa ragione le parole con cui Antonello Giannelli, presidente di ANP, ha inaugurato il convegno, risultano di grande interesse per i manager: via le materie. Giannelli ne ha parlato come di una provocazione, forse senza intuire quanto risulti preziosa questa indicazione per il mondo del lavoro. 

La rigorosa separazione delle materie di studio è tanto arbitraria quanto è artificiosa la divisione tra silos organizzativi. Queste distinzioni funzionavano bene in un mondo che si credeva semplice, nel quale era facile distinguere con accuratezza gli elementi e attribuire in via definitiva le identità. Era il mondo della produzione standardizzata, dove alle persone si chiedeva di simulare i gesti delle macchine: ripetitivi, omogenei, monotoni. 

Il mondo semplice era anche il mondo delle garanzie professionali: studia bene e il tuo posto di lavoro sarà stabile, la tua carriera prevedibile. Quel mondo è scomparso, ha lasciato il posto all’universo della complessità, dove ordine e disordine si intrecciano, le competenze si ibridano, le certezze svaniscono e le carriere somigliano al tracciato di un elettrocardiogramma impazzito. 

Nel mondo semplice il capo poteva fare il capo perché conosceva tutte le risposte e i suoi collaboratori si fidavano di lui perché era quasi impossibile che il capo si sbagliasse. Nel mondo complesso, il capo ignora quasi tutto. Questo capo può diventare un leader, e dunque può riuscire a farsi seguire dai collaboratori, solo se è capace di mostrarsi incompleto, bisognoso, aperto ai suggerimenti. Il mondo complesso ha bisogno di capi che abilitano, ovvero sanno trasformare in atto le potenze di cui sono circondati. Proprio come i maestri che fanno fiorire gli allievi attraverso la sfida delle domande ben poste, cui nemmeno i peggiori lavativi sanno resistere. 

Ho dedicato il mio intervento a La scuola del futuro alle generazioni zainocratiche, quelle che hanno compreso che la complessità non può essere governata con la sola burocrazia, giovani vite cui la scuola dovrà offrire strumenti per riconoscere nel disordine nient’altro che la forma originaria di una organizzazione migliore.

Come ha dichiarato a margine del convegno Licia Cianfriglia, responsabile Relazioni istituzionali ANP, “La scuola del futuro è una scuola che non rincorre, semmai detta le linee per lo sviluppo della società”. Una buona linea guida per i dirigenti del terziario.

Il resoconto video del convegno La scuola del futuro è disponibile qui.

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