Ascesa e declino del diesel europeo

Lotta all'inquinamento: la situazione in Europa delle polveri sottili provocate dai motori diesel

A partire dagli anni novanta i motori diesel hanno letteralmente scalato il mercato dell’automotive in Europa: da una quota di poco superiore al 10% (EU-15, Svizzera, Norvegia e Islanda) nel 1990 il diesel è rapidamente diventato il mainstream per oltre la metà degli europei. Gli automobilisti americani invece non hanno mai ritenuto affascinante l’alternativa del gasolio dato che i prezzi della benzina negli Stati Uniti sono da sempre tra i più concorrenziali al mondo.
Dopo la ratifica del Protocollo di Kyoto nel 1997, gli stati firmatari hanno attuato diverse strategie per rispettare gli impegni per ridurre le emissioni di CO2, il gas climalterante ritenuto maggior responsabile del riscaldamento globale.

Se Usa e Giappone hanno preferito dare priorità alle auto elettriche e ibride con Tesla e Toyota ad esempio, in Europa ci si è rivolti al diesel come alternativa più economica e decisamente più veloce per ridurre le emissioni di gas serra. Verso la fine degli anni novanta i governi europei, sollecitati principalmente da Daimler, BMW e Volkswagen, hanno deciso di investire miliardi di euro per incentivare i motori a gasolio poiché la loro maggiore efficienza in termini di consumi di carburante per km si traduceva anche in minori emissioni di CO2 al km. Nonostante il diesel sia più denso della benzina (il diesel contiene 2,68kg CO2/litro, mentre la benzina contiene 2,31kg CO2/litro), le sue emissioni di CO2, a parità di km su strada, risultavano inferiori di circa il 60% rispetto a quelle di un motore a benzina (il diesel emette 120 grammi di CO₂/km contro i 200 grammi di CO₂/km per la benzina, iniezione indiretta).
Per velocizzare l’adozione di motori più efficienti e a basso impatto climalterante si è ricorso a massicci sussidi e a importanti sgravi fiscali che hanno portato la quota di mercato del diesel europeo dal 14% del 1990 a oltre il 56% nel 2011. Un cambiamento di paradigma senza precedenti nel mondo dei trasporti (tavola 1).

Nel 2012 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha fatto presente che i motori a diesel hanno sicuramente una miglior performance relativa alle emissioni di gas climalteranti, ma hanno un forte impatto in termini di emissioni di gas inquinanti che hanno effetti immediati sulla salute. In particolare, l’Oms ha evidenziato che il gasolio emette 3-4 volte più NOx (ossidi di azoto) e 22 volte più particolato (PM10, PM2,5) dei motori a benzina (a iniezione indiretta). Una precisazione non certo irrilevante le cui conseguenze sono a breve termine e tangibili se si pensa che oggi oltre la metà della popolazione globale vive nei conglomerati urbani e si prevede che nei prossimi 20-30 anni tale proporzione raggiungerà rapidamente il 70%.

Negli anni novanta la sensibilità relativa al concetto di “smart city” e alla qualità dell’aria delle città era ancora marginale e sicuramente non era un tema all’ordine del giorno nell’agenda politica. Kyoto aveva messo in luce la pericolosità dell’aumento di emissioni di CO2 per il surriscaldamento del Pianeta e le politiche ambientali si erano principalmente concentrate sulla lotta ai gas climalteranti, i cosiddetti gas serra (GHG). Sugli inquinanti come il particolato e gli ossidi di azoto c’erano meno statistiche e non c’era ancora una diffusa evidenza scientifica di come l’esposizione a una combinazione di diverse sostanze inquinanti potesse impattare la salute umana fino a modificarne il patrimonio genetico.

A partire dai primi anni 2000 l’Epa (Environmental protection agency of the Usa) negli Usa e l’EEA (European environment agency – Agenzia europea per l’ambiente) in Europa hanno emesso le prime regolamentazioni per il controllo della qualità dell’aria. In Europa la direttiva Cafe (Cleaner air for Europe) del 2008 ha messo a punto la strategia per la riduzione dell’inquinamento atmosferico nelle città europee e ha per la prima volta introdotto degli obiettivi soglia per il particolato, gli NOx e altri gas inquinanti. Con il passare degli anni anche la misurazione della concentrazione di polveri e gas nell’aria si è molto evoluta ed è divenuta sempre più capillare fino ai giorni nostri in cui le stazioni di rilevamento coprono quasi tutto il Pianeta. Negli ultimi dieci anni in particolare si è assistito a un aumento importante di studi scientifici relativi agli effetti avversi sulla salute dell’inquinamento atmosferico dei nostri tempi (OMS 2012, 2013a, Health Effects Institute, HEI 2010, 2013a, b, Brook et al. 2010 e altre importanti pubblicazioni individuali), oltre ad alcune iniziative locali come ad esempio l’introduzione dell’Area C nella città di Milano.

Nonostante una vasta letteratura dimostri che in Europa la maggior parte del problema è attribuibile alle emissioni dei veicoli diesel, si è dovuto attendere lo scandalo Volkswagen del 2015 – il cosiddetto Dieselgate relativo alla scoperta di software ad hoc in grado di ridurre le emissioni di NOx delle vetture diesel fino a oltre cinque volte nei test di omologazione rispetto alla performance su strada – per scuotere gli animi dei governi e dei consumatori europei.

Con il Dieselgate l’impatto dei motori a gasolio sulla qualità dell’aria è improvvisamente diventato una priorità politica spinto anche dalle statistiche sempre più preoccupanti sulle morti causate dall’inquinamento. Nel mondo si stimano 8 milioni di decessi (di cui 4,2 milioni per inquinamento outdoor e 3,8 milioni per inquinamento indoor, OMS, 2018) nel solo 2017, un numero superiore alle morti causate ogni anno dal tabacco, in prevalenza nei Paesi meno sviluppati. Però si calcolano mezzo milione di morti premature in Europa, di cui il 93% nell’Unione europea (483.400 morti nei paesi EU-28 nel 2015, European environment agency). I governi europei, in primis la Germania, hanno risposto imponendo dei limiti importanti alla circolazione delle automobili a diesel nei maggiori centri cittadini, in particolare di diesel Euro 1 (1992), 2 (1995), 3 (1999) e 4 (2005). Conseguentemente gli automobilisti sono stati costretti a fare un rapido dietrofront: nel 2017 per la prima volta dopo diversi anni le vendite di autovetture a benzina hanno superato quelle dei diesel riconquistando la metà del mercato delle nuove immatricolazioni. In pratica tra il 2014 e il 2017 l’effetto di sostituzione spinto in gran parte dal Dieselgate ha portato circa il 9% dei nuovi compratori di auto a cambiare scelta: l’80% ha optato per i motori a benzina e oltre il 20% ha deciso di sperimentare tecnologie alternative quali l’ibrido e l’elettrico che complessivamente sono passati da una quota del 4,1% nel 2014 al 5,8% nel 2017 (tavola 2). 

I nuovi veicoli a benzina a iniezione diretta, pur continuando ad essere meno efficienti dei diesel, hanno ridotto notevolmente le emissioni di CO2 al km che sono spesso comparabili con quelle dei motori a gasolio. Con il blocco ai diesel imposto nelle maggiori città europee sempre più automobilisti sono costretti a rinunciare alle migliori performance del diesel per evitare le limitazioni alla circolazione nei centri cittadini, oltre che la verosimile notevole svalutazione.

La tavola 3 mostra che tale tendenza è comune ai principali paesi europei a partire dal 2015, l’anno del Dieselgate. Fa sicuramente effetto vedere che il dato Eu-15 al 2018 è praticamente tornato ai livelli dell’anno 2000.

Per avere un’idea di come l’Europa si posiziona a livello globale in termini di qualità dell’aria è utile consultare i dati dell’Oms e dell’Oecd relativi alla concentrazione di particolato (PM10) e di NOx. La tavola 4 mostra i valori medi di PM10 per le città capitali o maggiori centri finanziari più inquinate del Pianeta e conferma che il livello di inquinamento è in media molto più alto nei paesi sottosviluppati. 

Delhi risulta di gran lunga la città più inquinata del mondo. Pechino, spesso criticata per il suo alto livello di polluzione, è solo al settimo posto e, come eccezione, la ricca Abu Dhabi figura al quarto posto.

Attribuire l’impatto specifico sulla salute dei singoli PM o NOx non è così semplice. L’effetto finale può essere dato dalla somma dei singoli effetti o dall’interazione di questi, il cui impatto combinato può amplificare i danni sull’organismo. Ad esempio gli ossidi di azoto sono irritanti delle vie respiratorie e degli occhi, un’esposizione prolungata può impedire il trasporto di ossigeno ai tessuti o provocare edema polmonare. Però anche il particolato può penetrare nei polmoni e, veicolando nell’organismo altri microinquinanti come i metalli, può indurre effetti mutageni e cancerogeni.

La letteratura epidemiologica dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che l’esposizione all’inquinamento atmosferico comporta effetti avversi sulla salute delle popolazioni. Nonostante ciò i livelli di qualità dell’aria delle maggiori città europee rimangono preoccupanti e, poiché la prima causa in assoluto di questa scarsa performance in Europa risulta essere il traffico veicolare, sono necessari ulteriori interventi per prevenire o mitigare i danni sanitari per le popolazioni. Il primo e più ovvio è il rispetto delle norme sulle emissioni su strada emanate nel 2007 e aggirati con i test di laboratorio del Dieselgate. La tempistica di attuazione (2020 vs 2023) è in corso di discussione tra la Corte di Giustizia Europea e la Commissione europea.

In realtà il ritorno della benzina, se pur con efficienza migliorata, non è l’opzione più desiderabile bensì lo sarebbero alternative a impatto zero o quasi-zero come l’elettrico e l’ibrido che peraltro sono marginali con il 6% delle vendite in Europa nel 2018. I nuovi blocchi ai diesel nelle città – come ad esempio la appena inaugurata area B di Milano – affiancati alla crescente riduzione del vantaggio fiscale del gasolio rispetto alla benzina stanno comunque avendo i primi effetti sulla composizione della flotta automobilistica europea e tutto lascia prevedere che continueranno fino probabilmente a riportare il diesel ai livelli dei primi anni novanta. La discesa del gasolio europeo appare irreversibile: se pur il timing e gli specifics di questo trend non siano ancora definitivi, l’importante è che lo sia la sua direzione.

In Europa, se pur i livelli medi di PM10 sono decisamente più bassi (la media delle prime otto città è pari a 174 µg/m3, la media delle sette città europee è pari a 37 µg/m3), siamo ancora ben distanti dalla soglia di 20 µg/m3 raccomandata dall’Oms e fa sicuramente impressione vedere che Milano (36 µg/m3) è più inquinata di Varsavia e di Mosca.

Secondo uno studio pubblicato su EUobserver (Top 100 European places where Dieselgate ‘kills’ most” di Stefano Valentino/European Data Journalism Network, giugno 2018), l’Italia è la nazione europea che conta più morti imputabili allo smog cittadino: il nostro Paese include oltre il 40% delle aree più rischiose in Europa per quanto riguarda questa amara classifica. Questo dato sorprende meno se consideriamo che siamo la nazione più motorizzata dell’Ue (in realtà dopo il Lussemburgo con 662 autovetture ogni 1.000 abitanti nel 2016, Eurostat) con 625 autovetture ogni 1.000 abitanti, il 29% in più della media europea.

Le statistiche relative agli ossidi di azoto sono disponibili a livello Paese. La tavola 5 riporta i livelli di concentrazione di NO2, il più pericoloso tra i vari ossidi di azoto, relative all’anno 2016 per i 39 paesi Eea (paesi membri dell’Eea, eccetto Lichtenstein e Kosovo) a confronto con il valore limite annuale (in arancione). Il 60% dei paesi considerati ha registrato livelli di concentrazione di NO2 superiori alla soglia e il 98% delle stazioni che hanno rilevato i dati oltre il limite consigliato si trovano in agglomerati urbani.

Attribuire l’impatto specifico sulla salute dei singoli PM o NOx non è così semplice. L’effetto finale può essere dato dalla somma dei singoli effetti o dall’interazione di questi, il cui impatto combinato può amplificare i danni sull’organismo. Ad esempio gli ossidi di azoto sono irritanti delle vie respiratorie e degli occhi, un’esposizione prolungata può impedire il trasporto di ossigeno ai tessuti o provocare edema polmonare. Però anche il particolato può penetrare nei polmoni e, veicolando nell’organismo altri microinquinanti come i metalli, può indurre effetti mutageni e cancerogeni.

La letteratura epidemiologica dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che l’esposizione all’inquinamento atmosferico comporta effetti avversi sulla salute delle popolazioni. Nonostante ciò i livelli di qualità dell’aria delle maggiori città europee rimangono preoccupanti e, poiché la prima causa in assoluto di questa scarsa performance in Europa risulta essere il traffico veicolare, sono necessari ulteriori interventi per prevenire o mitigare i danni sanitari per le popolazioni. Il primo e più ovvio è il rispetto delle norme sulle emissioni su strada emanate nel 2007 e aggirati con i test di laboratorio del Dieselgate. La tempistica di attuazione (2020 vs 2023) è in corso di discussione tra la Corte di Giustizia Europea e la Commissione Europea.

In realtà il ritorno della benzina, se pur con efficienza migliorata, non è l’opzione più desiderabile bensì lo sarebbero alternative a impatto zero o quasi-zero come l’elettrico e l’ibrido, che peraltro sono marginali con il 6% delle vendite in Europa (veicoli elettrici puri, ibiridi plug-in, full e mild hybrid, GPL, LPG, etanolo E85) nel 2018. I nuovi blocchi ai diesel nelle città – come ad esempio la appena inaugurata area B di Milano – affiancati alla crescente riduzione del vantaggio fiscale del gasolio rispetto alla benzina (secondo Bloomberg dal settembre 2015 al febbraio 2019 il vantaggio fiscale del diesel sulla benzina si è ridotto in media del 30% nei paesi Ue) stanno comunque avendo i primi effetti sulla composizione della flotta automobilistica europea e tutto lascia prevedere che continueranno fino probabilmente a riportare il diesel ai livelli dei primi anni novanta. La discesa del gasolio europeo appare irreversibile: se pur il timing e gli specifics di questo trend non siano ancora definitivi, l’importante è che lo sia la sua direzione.

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