Inps: il futuro dei pensionati e dei lavoratori con il misto

Vediamo alcuni scenari possibili tratti dal XXI Rapporto annuale dell'Inps intitolato "Conoscere il Paese per costruire il futuro"

Il XXI Rapporto annuale dell’Inps, presentato l’11 luglio scorso alla Camera dei Deputati, fotografa la situazione pensionistica in Italia – in particolare il fenomeno delle cosiddette “pensioni povere”, ma anche la differenza tra donne e uomini – e accenna ad alcuni scenari possibili per consentire il pensionamento anticipato a chi ha il regime misto. Vediamo prima i numeri e poi gli scenari.

Al 31 dicembre 2021, i pensionati in Italia sono circa 16 milioni, di cui 7,7 milioni di uomini e 8,3 milioni di donne, e ammontano a circa 22 milioni di assegni pensionistici. Il 32% degli assegni previdenziali si attesta al di sotto di mille euro lordi al mese.

L’importo lordo delle pensioni complessivamente erogate nel 2021 è di 312 miliardi di euro. Le donne rappresentano il 52% sul totale dei pensionati, ma percepiscono solo il 44% degli assegni pensionistici. L’importo medio mensile dei redditi percepiti dagli uomini è di 1.884 euro lordi, del 37% superiore a quello delle donne, pari a 1.374 euro. La maggioranza dei lavoratori maschi lascia il lavoro con una pensione anticipata, mentre le femmine lasciano il mercato del lavoro con la pensione di vecchiaia.

«Abbiamo bisogno di più lavoro e di lavoro meglio retribuito se vogliamo assicurare al Paese la sostenibilità del suo sistema di welfare», ha affermato il presidente dell’Inps Pasquale Tridico. «Per l’equilibrio del sistema previdenziale, occorre garantire la sostenibilità della spesa, ma anche l’allargamento della base contributiva sia in termini di recupero del sommerso che di incremento della massa retributiva per i lavoratori regolari».

Grazie a un’inflazione all’8%, quest’anno le pensioni nel 2023 cresceranno, dopo anni di penalizzazione, di 24 miliardi. Gli aumenti potrebbero essere più significativi di quelli dei lavori dipendenti, la cui contrattazione collettiva è ferma da anni.

Ricordiamo infatti che dal 2022 le pensioni sono tornate ad essere indicizzate all’inflazione secondo quanto previsto dalla legge 388/2000, per cui si ha un adeguamento al 100% per la quota di pensione fino a 4 volte il trattamento minimo, al 90% per la quota compresa tra 4 e 5 volte il minimo e al 75% per la quota superiore a 5 volte il minimo.

Attualmente è possibile andare in pensione a 67 anni con 20 di contributi (pensione di vecchiaia) o con 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne).

Quota 100 è terminata il 31 dicembre 2021 (62+38). Quota 102 terminerà il 31 dicembre di quest’anno (64+38).

In futuro come sarà possibile anticipare il momento della pensione per chi è nel sistema misto – sia retributivo che contributivo?

Il Rapporto annuale dell’Inps ipotizza tre possibili alternative – e i loro costi per lo Stato. Su di esse sicuramente ci sarà un confronto in autunno con le parti sociali.

Prima ipotesi: opzione al calcolo contributivo

Si ipotizza un’uscita a 64 anni con almeno 35 di anzianità contributiva, a condizione di aver maturato un importo della pensione pari ad almeno 2,2 volte l’assegno sociale, ovvero 1.030 euro al mese se calcolata con il livello di assegno sociale del 2022 (468,11 euro). La proposta prevede il calcolo dell’intera pensione secondo il metodo contributivo.

Per i lavoratori appartenenti al sistema contributivo puro (coloro che lavorano dal 1996) si prevede la riduzione della soglia da 2,8 a 2,2 volte l’assegno sociale.

Il costo per le casse dello Stato di questa opzione sarebbe di 880 milioni il primo anno (2023) per toccare poi un massimo di 3,7 miliardi nel 2029.

Seconda ipotesi: calcolo con penalizzazione

La proposta prevede un’uscita a 64 anni con almeno 35 anni di anzianità contributiva, a condizione di aver maturato un assegno pensionistico pari ad almeno 2,2 volte l’assegno sociale (1.030 euro al mese). E accettando un “ricalcolo della quota retributiva della pensione” che verrebbe ridotta di un fattore “pari al rapporto tra il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età di uscita e il coefficiente relativo all’età della vecchiaia”.

La proposta è assimilata a quella che prevede una penalizzazione del 3% della sola quota retributiva per ogni anno di anticipo rispetto all’età di vecchiaia. Anche qui per i post-1996 la soglia di 2,8 volte l’assegno sociale sarebbe abbassata a 2,2, così da permettere a più persone di andare in pensione.

Questa seconda ipotesi presenta livelli di spesa per i conti dello Stato più alti: da 992 milioni nel primo anno (2023) a quasi 5 miliardi nel 2030, per poi scendere. Il maggiore esborso è motivato dal fatto che la penalizzazione del 3% sulla quota retributiva per ogni anno di anticipo non scalfisce la maggiore convenienza del sistema di calcolo retributivo (in base agli ultimi stipendi) rispetto a quello contributivo (in base ai contributi versati).

Terza ipotesi: anticipo della sola quota contributiva della pensione

Si permette un anticipo pensionistico della sola quota di pensione contributiva in presenza dei seguenti requisiti: 63 anni di età e 20 di contribuzione e un importo della quota di pensione contributiva superiore a 1,2 volte l’assegno sociale (562 euro). Al raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia (67 anni, legati all’aspettativa di vita), al lavoratore verrebbe riconosciuta anche la quota retributiva della pensione.

Questa ipotesi ha il minor costo per i conti pubblici: quasi mezzo miliardo il primo anno (2023) fino a 2,5 miliardi nel 2029, per poi abbassarsi. Più che di costo, dovremmo parlare di anticipo dello Stato di somme accumulate dal pensionando (metodo contributivo): nel futuro, anzi, si configura un risparmio per lo Stato (meno anni di lavoro, importo della pensione più bassa).

Sottolineiamo che un limite di questa proposta potrebbe configurarsi nell’esiguo importo dell’assegno percepito per i primi quattro anni, rispetto alla pensione completa, ma va detto che la proposta è, per i bilanci dell’Inps, la più sostenibile.

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