Cosa cerca il consumatore?

Partiamo da quattro segnali forti ormai acquisiti, ma cogliamo anche i cambiamenti monitorando quelli deboli, destinati a conquistare sempre più rilievo nel corso dei prossimi mesi

SETTEMBRE RAPPRESENTA, PER MOLTI DI NOI, L’EFFETTIVO INIZIO DELL’ANNO. È il momento in cui, passate le vacanze, si tirano le somme e si fanno programmi. Insomma, è un turning point: un punto di avvio per nuove idee, nuovi progetti, nuove strategie. Proviamo a definire quali sono le basi di partenza per i tanti tra di noi che, nei prossimi mesi, si occuperanno di consumi e di consumatori.

Segnali forti
Partiamo da 4 segnali forti, che costituiscono (o dovrebbero costituire) un dato di fatto acquisito:
1. Survival     I consumatori cercano di risparmiare risorse. Non solo perché la crisi economica ha lasciato strascichi evidenti e ci spinge a fare attenzione a quanto e come spendiamo, ma anche perché aumenta la consapevolezza che le risorse del pianeta non sono infinite. I comportamenti che vanno in questa direzione sono numerosi. Pensiamo alla diffusione del second hand (abiti, accessori, attrezzatura sportiva ecc.), il cui mercato vale oltre 18 miliardi di euro, oppure allo sviluppo dello sharing, con fenomeni come BlaBlaCar e ScambioCasa. In ambito alimentare assistiamo al tentativo di ridurre lo spreco di cibo (secondo Coldiretti dal 2008 a oggi gli alimenti finiti in pattumiera sono diminuiti di oltre il 25%) e all’autoproduzione casalinga di prodotti come il pane, la marmellata o la passata di pomodoro.
2. Alla tavola non si rinuncia I consumatori spendono per il cibo    Ricercano la qualità, che può essere garantita da molteplici fattori: il punto vendita (si veda il caso Eataly oppure il ritorno dei mercati rionali), la zona di provenienza (il controllo di filiera, il km zero, l’Igp), le modalità di produzione (il biologico), la presenza o, meglio, l’assenza di alcuni ingredienti (il free-from, la demonizzazione dell’olio di palma). Amano sperimentare cibi e cucine nuove e, nel contempo, non disdegnano il pronto/semi-pronto, purché sia (o sembri) sano. Il risultato è un carrello multiforme, nel quale convivono le insalate pre-lavate e il gorgonzola dop, la pasta trafilata a bronzo, il succo di bacche di goji e i biscotti senza glutine.
3. Il trionfo del mash-up    I consumatori apprezzano gli spazi che mixano prodotti e servizi diversi. Il fioraio dove si può mangiare (come La Serra a Venezia oppure La Ménagère a Firenze), il negozio di biciclette dove fare colazione (Bianchi café & cycle a Milano), la libreria che ospita postazioni di co-working (Open a Milano), lo store dove lui può comperare l’underwear e farsi sistemare il pizzetto (Womo). Si pongono nella stessa area i risto-retail: luoghi che coniugano la degustazione e la vendita. È il caso, tra gli altri, di Accattatavillo a Brescia, specializzato in prodotti tipici del Sud, e della prosciutteria Dok Dall’Ava, declinata intorno al prosciutto crudo San Daniele. Attenzione: il mash-up non riguarda solo il mondo della distribuzione ma anche le aziende di produzione. Un esempio? Il brand di birra Carlsberg ha lanciato Beer Beauty, la prima collezione di prodotti di bellezza dedicati all’uomo. I cosmetici (shampoo, balsamo e crema per il corpo) sono a base di birra. Più ibridazione di così!
4. Toglietemi tutto ma non il mio smartphone    I consumatori sono sempre connessi. In primis grazie ai dispositivi mobili. Sette italiani su dieci possiedono almeno uno smartphone e lo usano per fare (quasi) tutto: postare contenuti e foto sui social network, guardare video, raccogliere informazioni, chattare. E fare shopping. Gli acquisti online via mobile crescono, infatti, del 51%, superando il valore di 2,8 miliardi di euro e raggiungendo il 15% del totale dell’e-commerce. Il settore trainante è l’elettronica di consumo, seguita da abbigliamento, editoria e turismo (fonte: Osservatorio e-commerce).

Segnali deboli
E i segnali deboli, quelli meno evidenti ma, non per questo, meno interessanti? Eccone tre destinati a conquistare sempre più rilievo nel corso dei prossimi mesi:
1. Gender fluid    Né maschili né femminili. Gender fluid appunto o, secondo altre definizioni, genderless, agender, gender neutral. Per ora il fenomeno tocca soprattutto la moda, con il lancio di collezioni prive di una specifica declinazione per genere. A muoversi in questa direzione sono sia i brand di fascia alta sia i marchi del fast fashion, come Zara. Senza dimenticare i retailer: Selfridges, per esempio, ha inaugurato un intero piano di abbigliamento denominato Agender. Quale sarà il prossimo settore coinvolto dal gender fluid? Il beauty probabilmente. Poi si vedrà…
2. Mobile retail    Si può trattare di un camion, di un furgoncino o di un’apecar. L’obiettivo è lo stesso: raggiungere i potenziali clienti dove si trovano in quel momento, portare il “negozio” da loro. E – aspetto non indifferente – risparmiare sul costo dell’affitto dei locali. Il fenomeno si è sviluppato dapprima nel food (basta vedere quanti furgoncini affollano le zone vicine agli uffici nell’ora di pranzo) per poi estendersi ad altri comparti. Ci sono i mezzi su tre ruote che vendono abiti e tessile per la casa, c’è il camion di Vibram dove risuolare le scarpe e i truck Nike che offrono agli urban runner scarpe, lacci e t-shirt. Insomma, le declinazioni sono illimitate: basta farsi trovare nel posto giusto al momento giusto.
3. Tecnologia da indossare    Bracciali che monitorano il battito cardiaco e orologi che leggono le email. Felpe connesse con il tablet e scarpe che registrano la postura di chi le indossa. L’era delle wearable technology è appena iniziata. Ed è destinata ad affermarsi non solo nell’ambito del fitness/benessere, che rappresenta oggi il segmento trainante, ma anche nell’abbigliamento per tutti i giorni. Con quale obiettivo? In prima battuta migliorare la performance dei capi. Il che significa, per esempio, ottimizzare l’aderenza delle fibre al corpo oppure rendere i tessuti reattivi alle condizioni esterne o alla temperatura corporea. C’è poi una dimensione ludica, come nel caso di Hugshirt, la t-shirt progettata da CuteCircuit. Si tratta di una maglietta pensata per le persone che si vogliono bene ma sono costrette a stare lontane. Uno la indossa e si abbraccia forte. Nel tessuto ci sono dei sensori che catturano la sensazione del contatto e la trasmettono via bluetooth allo smartphone. Una app trasforma i dati in un messaggio, che viene inviato al destinatario dell’abbraccio. Questo, a propria volta, vede un’animazione sul telefono e, se indossa una maglietta dello stesso tipo, si sente avvolto da un abbraccio. Non è come essere davvero vicini ma è pur sempre un segno di affetto…

Per chiudere, un suggerimento: tenete d’occhio la Generazione Alpha, che comprende i nati tra il 2010 e il 2014. Certo, ora vanno all’asilo ma, tra qualche anno, inizieranno a incidere in maniera significativa sulle dinamiche di consumo. E a dire la loro su temi quali la sostenibilità della produzione o la condivisione delle merci.

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