Memorie di una ragazza radicale

Nelle pagine del suo ultimo libro autobiografico, Il design non è una cosa seria, Cristina Morozzi racconta come il design italiano è diventato ciò che è oggi. E lo fa attraverso il racconto della sua vita

Non fatevi ingannare dal titolo: Il design non è una cosa seria. Al contrario, per Cristina Morozzi il design è una cosa serissima, al punto da avervi dedicato (quasi) tutta la sua vita.
E non lo è solo per lei, ovviamente. Quello del design, infatti, è uno dei comparti più interessanti per il nostro Paese sia in termini economici sia in termini di immagine. Non a caso la F di furniture (arredamento) costituisce, insieme a quelle di fashion e food, una delle 3 F del made in Italy.

Da Archizoom Associati a Montefibre: la storia del design anni 70
Nelle 190 pagine del libro Cristina Morozzi racconta come il design italiano è diventato ciò che è oggi. E lo fa attraverso il racconto della sua vita.
A partire dagli anni fiorentini, che sono anche gli anni di Archizoom Associati, lo studio fondato da Andrea Branzi, Gilberto Coretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi, che di Cristina diventa il marito. O meglio, per usare le sue parole, «il mio compagno di vita. Ci siamo fidanzati, sposati, abbiamo avuto quattro figli, abbiamo condiviso interessi e passioni, in pace, talvolta in guerra, sempre con grande complicità intellettuale». E poi il periodo milanese, grazie a Elio Fiorucci, allora direttore del centro design Montefibre della Montedison, che chiama Massimo Morozzi e Andrea Branzi a collaborare al processo di ideazione di nuove texture destinate ai materiali plastici. Erano gli anni 70 ma sembra passato un secolo. E viene da chiedersi se oggi ancora esista, e nel caso dove sia, quello spirito pionieristico e sperimentatore che porta un fashion designer e due designer a lavorare insieme per quella che era allora la principale azienda italiana di tecnofibre. Detto per inciso: un fashion designer e due designer fuori dal comune.Il primo è stato, tra le altre cose, il creatore di un nuovo concetto di retail con il negozio di Galleria Passerella («impossibile uscirne senza aver acquistato qualcosa. Una scoperta continua, non si poteva evitare di farci un passaggio, almeno settimanale. Era la tappa obbligata dei giovani. La varietà delle sue proposte, che arrivavano da tutte le parti del mondo era irresistibile»). Gli altri due hanno firmato progetti per le principali aziende di design, e non solo.

Il Salone del Mobile: le origini
Un capitolo particolarmente interessante del testo è dedicato al Salone del Mobile. Una scelta “inevitabile”, a fronte del ruolo che la manifestazione ha ricoperto, e tuttora ricopre, per il settore. Morozzi spiega perché il Salone, la cui prima edizione risale al 1961, sia nato proprio nel capoluogo lombardo: «È l’esposizione delle produzioni di arredi della Brianza, la zona collinare a nord di Milano, punteggiata di ville, villette e di piccole aziende a conduzione familiare, corroborate da una fitta rete di eccellenti laboratori artigiani, per la maggior parte di falegnameria».
Dunque, nasce come espressione di quella piccola e media impresa, a conduzione tipicamente familiare, che si appoggia sul sapere e le competenze degli artigiani locali. Gente per la quale «non si può fare non è contemplato, una soluzione, prima o poi, la trovano sempre». Certo, nel tempo il Salone del Mobile è via via cresciuto, diventando la principale vetrina dell’arredo a livello internazionale.
Basti pensare che, nell’edizione del 2017, gli espositori alla Fiera di Rho sono stati oltre 2.200, ai quali vanno aggiunti i 500 giovani del Salone Satellite. Tuttavia è importante ricordare come tutto abbia avuto origine lì, da quel coacervo di case, fabbriche e laboratori sviluppati senza soluzione di continuità, quasi “intessuti” gli uni negli altri.

Il ruolo delle mostre per sostenere il design
Un altro merito del libro è sottolineare il ruolo delle mostre per sostenere il design e, soprattutto, avvicinarlo al grande pubblico. Le mostre grandi, pubblicizzate e supportate da sponsor di rilievo, ma anche quelle più piccole, che vengono realizzate con budget limitati e acquisiscono notorietà (e visitatori) grazie al passaparola. L’autrice non nasconde di avere una predilezione per la seconda categoria, di cui si è trovata più volte a curare l’allestimento.
È il caso, per esempio, della mostra dedicata al riciclo dei materiali, realizzata alla fine gli anni 90, che ha ospitato, tra l’altro, una mini casa di carta, perfettamente abitabile. Un progetto che ha toccato una problematica ancora attuale: la relazione tra ciò che comperiamo (in maniera talora bulimica) per arredare e vestire le nostre abitazioni e l’impatto che questi prodotti hanno sul pianeta oggi e, tanto più, domani.
Del resto lo sviluppo delle insegne come Ikea e Zara Home da una parte ha permesso a vasti segmenti di consumatori di avere accesso a prodotti dal design interessante e dal prezzo conveniente (il “mantra” di Ikea recita proprio “il design democratico”), ma dall’altra parte ha incentivato un consumo compulsivo, all’insegna del “è carino, costa poco, perché no?”, di complementi di arredo e oggetti per la casa.

Non sarebbe giunto il momento di sviluppare una riflessione sul tema anche al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori così da coinvolgere (e sensibilizzare) i consumatori?


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