Si può sognare una PA italiana un po’ meno “all’italiana”

La casta, La deriva, Rapaci, La cricca, Licenziare i padreterni, Se muore il Sud, Onorevoli e no, La repubblica dei brocchi, Il pacco, La memoria del criceto e Riprendiamoci lo Stato. Non ci è mai andato per il sottile Sergio Rizzo, vicedirettore di Repubblica e giornalista d’inchiesta che ha lavorato in alcune delle principali redazioni italiane. Del resto il ruolo autentico del giornalista è quello di sorvegliare il potere con i suoi articoli e i tanti saggi su scandali, distorsioni e tutto quello che non va nella nostra bellissima ma “ingolfata” Italia

Dando per scontato che lo Stato e la burocrazia in Italia funzionano male, di chi è la colpa?

«Il peccato originale è nella natura e nella storia del rapporto tra lo Stato e gli italiani, con questi ultimi che non sono mai riusciti ad ottenere lo status di cittadini veri e propri. Sono rimasti sudditi, perché lo Stato-apparato non si fida di loro e questo – di conseguenza – fa sì che loro non si fidino dello Stato. Il mezzo di questo insano rapporto è governato dalla burocrazia che agisce ostacolando e non agevolando la cittadinanza. Con l’avvento della Repubblica e della Costituzione formalmente è cambiato tutto, ma sostanzialmente niente.  

Basti pensare al principio introdotto dalla legge 241 del 1990 per il quale la pubblica amministrazione non deve richiedere al cittadino documenti che sono già in suo possesso, oppure ai principi espressi dall’art. 97 della Costituzione sul buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione… Ricordo che nel dibattito dell’Assemblea costituente, Togliatti propose di introdurre un controllo popolare sulla burocrazia, ma dalla legge del ‘90 al decreto trasparenza del 2016 mi pare che nulla di tutto questo sia avvenuto».

Qual è il ruolo dei sindacati, quelli che hanno a che fare con la Pa perché rappresentano i dipendenti?

«Se non ci fossero stati i sindacati in questi decenni non vivremmo certo in un paese migliore. Col tempo però abbiamo assistito a una brutta deriva: i sindacati hanno stabilito un rapporto deleterio con la politica, che ha ovviamente interesse a conquistare e mantenere consensi. Questo ha impedito di esercitare un controllo sull’efficienza degli uffici pubblici, favorendo la conservazione di poltrone e di un sistema complessivo non efficiente e ostile all’utente. I sindacati del pubblico impiego sono diventati molto potenti – ne è un esempio quanto accaduto all’Inps con il condizionamento delle nomine – ed è molto difficile che possano diventare promotori di un cambiamento». 

Chi rappresenta il Paese e l’economia, il mondo delle imprese, cosa potrebbero fare per richiedere e sollecitare un definitivo cambiamento?

«Lo Stato non ha interesse come detto e di questo sistema inefficiente si sono giovate in passato anche le imprese, che da qualche anno si sono cominciate a lamentare del fisco e solo da pochissimo anche della burocrazia. C’è una forma perversa di cointeressenza che dà luogo a un circolo vizioso».   

La dirigenza, i dirigenti dei ministeri e della Pa, cosa fanno e cosa potrebbero e dovrebbero fare?

«A mio avviso, solo per fare un esempio, un dirigente della pubblica amministrazione dovrebbe confrontarsi con il suo utente, come fanno le imprese con i clienti, la cosiddetta misurazione della customer satisfaction: nessun altro meglio dei cittadini può stabilire se un servizio è utile, efficiente ed eseguito rapidamente. C’è un problema di quantità e di qualità: abbiamo il più alto rapporto dirigenti-dipendenti pubblici e 12-13 dipendenti pubblici ogni 100 abitanti. Quanto alla qualità, è ampiamente fallito l’esperimento di intercettare dirigenti dal settore privato a causa delle scelte legate solo a rapporti personali per finalità politiche anziché alle competenze e capacità. E anche il criterio del valore regale delle lauree ha mostrato tutta la sua debolezza, per non parlare dei concorsi, i famosi concorsi all’italiana». 

Quindi non ci sono speranze di cambiamento dall’interno?

«Credo che non siamo molto lontani dal raggiungere un punto di rottura e anche i sindacati devono comprendere che la difesa di chi non produce, di uffici inutili, danneggia tutti gli altri, tutta la categoria. L’Italia non cresce dall’inizio del 2000, dal 2001 al 2011 abbiamo perso il 6,5% di pil, mentre altri paesi come la Germania sono cresciuti». 


Sergio Rizzo, vicedirettore di Repubblica

Da dove ripartire per riprenderci lo Stato e avere una burocrazia veramente al servizio del cittadino, dell’economia e del Paese? Dal suo libro Riprendiamoci lo Stato – Come l’Italia può ripartire pare di capire che una grande riforma non funzionerebbe… 

«Abbiamo assistito a troppi tentativi di grandi riforme e servirebbe un cambiamento culturale radicale ma non ci sono più i tempi. Ci proviamo dagli anni 80. Suggerirei di provare con piccoli cambiamenti: per la selezione del personale fare i concorsi veri, scegliendo i candidati per la capacità e per la motivazione che è sempre un grande motore: una persona deve provare l’orgoglio di svolgere un servizio pubblico e non scegliere l’incarico soltanto per avere uno stipendio. Penso alla vocazione dell’insegnamento, ma lo stesso discorso si può applicare più in generale. E non si capisce perché il criterio della premialità debba risiedere nell’anzianità, quando a contare sono solo merito e competenza. Poi occorre la formazione, a livello di dipendenti e di dirigenti. E a proposito di dirigenti bisognerebbe aumentare la parte variabile dello stipendio e legarla a coefficienti oggettivi come il riscontro da parte di chi riceve il servizio pubblico. Altra cosa inaccettabile è il potere di nomina dei direttori sanitari attribuito alla politica. Questo è uno dei casi in cui la dirigenza si trova molto spesso a occupare una poltrona per meriti politici e non effettivi». 

Forse serve anche cominciare a ragionare e lavorare in ottica customer oriented?

«Certo, non si capisce perché lo Stato, pur avendo tutte le informazioni possibili sul cittadino, debba di volta in volta chiedergli di produrre una serie di documenti diversi, a seconda dell’ufficio in cui si recherà. Non ci vuole molto a rimuovere questa assurdità, basta far dialogare tra loro le banche dati. Per stare invece alla stretta attualità, pensiamo al controllo eseguito solo a posteriori. L’esempio della Cig in deroga durante la fase più acuta dell’emergenza Covid è emblematico: sarebbe bastato consultare l’Inps per sapere che senza alcuna revisione del sistema ci sarebbero voluti almeno due mesi per l’erogazione e per potersi regolare di conseguenza». 

C’è forse anche un problema di ruoli?

«Certo, ci sono due fenomeni contrapposti che creano un corto circuito nel sistema: l’amministrativizzazione delle leggi, quando il Parlamento eccede nei suoi poteri e disciplina troppo nel dettaglio una materia sostituendosi alla Pa, e l’eccessivo ricorso ai decreti attuativi, con la rinuncia del legislatore ad abdicare dal suo ruolo, con il risultato di lasciar scrivere le leggi ai burocrati. Questi decreti oltretutto fanno bisticciare i ministeri perché spesso le competenze coinvolgono più dicasteri. Un esempio su tutti i ritardi sul varo del bonus bici deciso prima dell’estate. E, per concludere, citerei il modo in cui vengono scritte le norme: Max Weber ricordava che per il potere, rendere più complicata la vita allunga la vita».   

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